La lotta di classe (contributiva)

A cura di Marco Matani-

L’evento più traumatico degli ultimi vent’anni della politica italiana è probabilmente rappresentato dalla legge Fornero. Il Paese sente crescere sulle proprie spalle un peso sempre maggiore, e ne sta divenendo insofferente, come le lacrime dell’ex ministro attestano.

Che non siamo proprio un Paese per giovani se ne sono accorti anche i potenziali genitori, i giovani tra cui sempre in meno trovano il coraggio di dare alla luce dei pargoletti:nel corso del 2016 con 474mila nascite è stato battuto il record negativo risalente all’anno precedente, quando le nuove vite erano state 486mila.
Secondo la ricostruzione della CGIA di Mestre,l’Italia si attesta prima in Europa per la spesa pensionistica: il 16,8% del Pil, ovvero circa 270 miliardi di euro all’anno; di contro, è al penultimo posto negli investimenti nell’istruzione con il 4,1% del Pil, equivalente a 65,5 miliardi di euro all’anno. Il segretario della CGIA di Mestre Giuseppe Bortolussi nota come “le politiche di spesa realizzate negli ultimi quarant’anni abbiano privilegiato, in termini macroeconomci, il passato, ovverosia gli anziani, anziché il futuro, cioè i giovani”.
Una pletora di geronti assorbe insomma una buona fetta di risorse del Paese: gli over 65 sono il 22% della popolazione (dati Istat alla mano). Una schiatta tale (quasi un quarto del totale) da rappresentare un elefante nella stanza non ignorabile per qualsiasi forza politica: da qui la delicatezza del tema. Ma un simile carico prova duramente le spalle del Paese. Qualche scricchiolio sembra già di sentirlo: riferendosi al bilancio dell’Inps, la Corte dei Conti prevede che “per effetto di un peggioramento dei risultati previsionali assestati del 2016 (con un risultato economico negativo che si attesta su 7,65 miliardi) il patrimonio netto passi, per la prima volta dall’istituzione dell’ente, in territorio negativo per 1,73 miliardi“.

Che fare? Ad avviso di chi scrive, l’errore commesso finora è quello tipico della vulgata politico-economica da ormai più di un ventennio (troppo) in auge nel continente: quello del patema microeconomico, e quindi della sterilità verso analisi di lungo periodo.  La riforma Fornero, al pari di tutte quelle proposte miranti ad un sistema contributivo, insegue il fine ultimo (e restrittivo) di tagliare la spesa pensionistica in termini assoluti. Intento in cui la legge è certamente riuscita; a dire il vero, una certa mano l’hanno data anche il freddo ed il caldo eccezionali degli ultimi mesi. Peccato che il peso delle pensioni sul Pil, il dato più rilevante alla fine dei giochi, salirà a partire dal 2019, disegnando una nuova gobba crescente; gli effetti attesi dalla riforma Fornero sono allora seriamente minacciati, secondo l’allarme lanciato dalla Ragioneria generale dello Stato. La situazione è destinata a peggiorare: La Stampa fissa addirittura “l’anno zero” della previdenza al 2030, allorché andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia in pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini. Per quel tempo“La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)”, dichiara Gian Carlo Blangiardo, ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano.

La lente usata per guardare il problema è sbagliata. Occorre in prima battuta un approccio macroeconomico; il quale ci suggerisce inesorabilmente che gli anziani sono stati un salvagente per i consumi delle famiglie italiane in un periodo di secca quale quello attuale: l’ammontare pensionistico, al netto della spesa per medicinali, gli accantonamenti per i loculi e le lapidi, forse qualche offerta a Radio Maria ed il resto dei grami consumi di un pensionato medio, va a sostenere la domanda interna falcidiata dalla crisi. Ridurre tali trasferimenti si traduce allora in meno reddito, cioè meno consumi, cioè meno produzione, cioè meno Pil, cioè un rapporto pensioni/Pil in crescita. Non bisogna però illudersi: il nodo gordiano della questione non si scioglie finché non si arriva ad un’ottica propria di una materia che, a torto, arranca sempre di più nelle facoltà di economia: la demografia. Questa ci dice che il punto autentico non sta nell’alleggerire il peso che incombe, bensì nel rafforzare le spalle su cui quel carico insiste. La causa ultima del decadimento di ogni tipo di civiltà nella storia è stata sempre dovuta all’essiccarsi di quel sangue che irrora e gonfia le vene della vita associata: la capacità di essere fecondi, di obbedire al mandato biblico del “Crescete e moltiplicatevi”. La soluzione non può essere ricercata oltre il Mediterraneo, pena enormi rischi di destabilizzazione dovuta ai problemi dell’integrazione. La sfida sta invece nell’attivare nel letto di ogni giovane coppia italiana una sfilza di cantieri, che si mettano al lavoro assieme a quelli invocati per la ricostruzione post-terremoto. Lo Stato deve consentire, tramite incentivi, sgravi fiscali ed assistenza specializzata il riattivarsi degli apparati riproduttivi degli italiani per tornare a riempire le culle. Un aggravio del deficit per stimolare la natalità attraverso un qualcosa di simile all’Opera nazionale maternità e infanzia genererà nel lungo termine una crescita della forza lavoro e quindi del Pil, secondo la formula di smithiana memoria per cui il prodotto nazionale Y equivale al prodotto tra produttività del lavoro π e il numero di lavoratori occupati L (Y=πxL), o anche secondo il modello proposto da Solow; a patto, ovviamente, che si riesca ad evitare ai nuovi nati di andare ad ingrossare le fila dei disoccupati.
Il fine, insomma, deve essere schiettamente quello di mettere i vecchi in minoranza, rivitalizzando la politica nazionale con la santa febbre della gioventù; così, in ultima istanza, da rendere la spesa pensionistica sostenibile ed abbatterne il peso sul Pil.

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