RUGGITE, DONNE!

A cura di Francesco Cocozza-

Le donne vengono retribuite mediamente meno degli uomini, a parità di posizione lavorativa. E’ una realtà ben conosciuta, tristemente nota a chiunque creda nella parità dei sessi e nell’emancipazione femminile. Lo è in tutto il Mondo, civiltà occidentale compresa.

Perché questa discrepanza? E’ usuale pensare che dipenda dalle origini patriarcali e maschiliste della maggioranza delle civiltà umane, ancora non completamente spazzate via dal processo di emancipazione femminile iniziato nel secolo scorso. In base a quanto espresso da molte ricerche condotte sul tema da economisti comportamentali, la risposta sposa sì questa teoria, ma in modo sorprendente.

Niederle e Vesterlund nel 2007 pubblicarono i risultati di un ricerca basata sulla competizione. Ai partecipanti veniva chiesto di risolvere quante più operazioni matematiche possibili nell’arco di pochi secondi. A ricompensarli per ogni risposa corretta, un piccolo premio in denaro differente in base al round svolto. Nel primo veniva corrisposta una somma fissa pari a 0,5$. Nel secondo veniva proposta una competizione: si conseguiva una somma di 2$ se si era i migliori di un gruppo di 4 persone, suddiviso equamente per genere; in caso contrario la somma corrispondeva a 0$. Infine, nel terzo round, si era sottoposti ad una scelta: scegliere le regole di retribuizione del primo o del secondo, in base alle proprie propensioni personali. Lo scopo era verificare la “propensione al rischio”, la “inclinazione alla competizione” e la “sovraconfidenza cognitiva” dei partecipanti, con particolare attenzione alle prestazione aggregate dei due generi.

La competizione fu vinta in egual misura da uomini e donne, i quali quindi non mostrarono differenze prestazionali fra i generi ma uguale probabilità di vincere. Eppure i guadagni medi conseguiti dagli uomini furono maggiori, in quanto nel terzo round il 73% di loro scelse di competere e rischiare. Solo il 35% delle donne scelse di competere. In altre parole, le 3 categorie comportamentali sovramenzionate portarono il genere maschile ad ottenere maggiori guadagni rispetto alla sua controparte femminile.

Un quarto round finale fu poi inserito per misurare specificatamente la differenza fra generi nella “propensione alla competione” pura. Veniva infatti data la possibilità di convertire la vincita del primo round in uno schema di pagamenti predeterminato o competitivo. Se il gap retributivo tra generi fosse aumentato, questo avrebbe suggerito una propensione maggiore degli uomini a competere, e quindi a performare meglio quando entrano esplicitamente in competizione. Il risultato viene riassunto così dai ricercatori: “Troviamo che circa il 57% dell’effetto di genere originale può essere attribuito in differenze generali nella sovraconfidenza cognitiva e nell’inclinazione alla competizione, mentre la restante componente “competitiva” è del 43%. Questo rende chiaro che il gap nella scelta di retribuzione è esacerbato quando gli individui devono performare sotto uno schema di compensazione competitivo.”

Ulteriori ricerche su questo tema furono portate avanti da Flory (2010) e Gneezy (2009). Nel primo caso si verificaro i risultati della precedente analisi in un ambiente naturale, non simulato. In particolare si indacò su come il modello di retribuzione, fisso o competitivo, influenzasse la decisione di accettare o meno una posizione lavorativa in 16 diverse città statunitensi. I risultati confermarono i precedenti: il gap di genere nell’applicazione per la posizione lavorativa più che raddoppiava quando una larga parte dello stipendio dipendeva dalle performance lavorative. Inoltre alcune particolari condizioni tendevano a colmare il divario fra i generi: una posizione basata sul lavoro di gruppo, solo leggermente dipendente dalle performance nella retribuzione e con un mercato del lavoro debole (quindi con nessuna possibilità di impiego alternativo). Le conclusioni furono quindi che il gap occupazionale veniva annullato in presenza di variabili in grado di mitizzare l’impatto psicologico-competitivo sulle scelte di impiego del genere femminile.

Nel secondo caso invece si verificò un punto cruciale della ricerca sulle differenze retributive fra uomini e donne: le diverse sovraconfidenza cognitiva e inclinazione alla competizione mostrate dai 2 generi derivano da una causale naturale-genetica o hanno al contrario origine nella componente culturale, nell’educazione ricevuta dalla società che ci ruota attorno?
Gneezy applicò il metodo sperimentale di Niederle e Vesterlund a due differenti gruppi etnici estremamente differenti fra loro: i Maasai della Tanzania, società dalla forte impronta patriarcale, e i Khasis dell’India, caratterizzati da una società matriarcale.
I risultati diedero una risposta precisa al dilemma inglese “nature or nurture?”. Nella società Khasis, al contrario di quanto avvenuto nella società Maasai e in quella statunitense, erano le donne ad assumere maggiori rischi competitivi nelle scelte economiche.

Quindi sì, è ragionevole concludere che sia la granitica natura patriarcale delle originali, della cultura e dell’educazione di buona parte del globo terreste a determinare l’elevato divario che separa il reddito di uomini e donne. È al contempo ragionevole concludere che questo divario sia, almeno per una parte rilevante, insito nella mentalità stessa delle donne e non (solo) derivante dalle limitazioni imposte da un ambiente lavorativo maschile a loro ostile. Una mentalità consciamente ed inconsciamente deturpata, incrinata e plagiata dalla società nella quale nascono e crescono, una società maschilista che le vorrebbe remissive e sottomesse.

Allora, o donne, alzate la testa. Credete in voi stesse, anche all’eccesso. Ruggite. Tuonate superbe nella savana del mercato lavorativo. Se l’economia comportamentale avrà avuto ragione, guadagnerete quanto gli uomini, abbetterete la fondamentale barriera economica: un altro vetusto ostacolo nell’infinito percorso per l’emancipazione sarà superato.

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