I più penalizzati da questo sistema previdenziale? I giovani

A cura di Valerio Forestieri

Intervista ad Andrea Battista, Amministratore Delegato delle assicurazioni Eurovita, membro del Board dell’Istituto Bruno Leoni e Laureato Luiss.

1.       Dott. Battista, il sistema previdenziale italiano può ritenersi sostenibile sotto il profilo economico e finanziario?

Sfatiamo subito un mito: il sistema previdenziale italiano – chiaramente all’interno del paradigma adottato, cioè un sistema pubblico a ripartizione – è finanziariamente tra i più sostenibili del mondo sviluppato. In effetti, per ragioni storiche e politiche, le manovre di risanamento dei conti pubblici, susseguitesi a partire dagli anni ’90 fino ad oggi, hanno spesso avuto al centro la riduzione della spesa pensionistica. Non a caso: sotto il profilo previdenziale, infatti, la Prima Repubblica aveva lasciato in eredità alla seconda un sistema tra i più squilibrati e irrazionali dell’Occidente.

Per rispondere compiutamente alla domanda e provare a fare il punto, occorre rivolgere lo sguardo al futuro sotto duplice profilo. Un sistema previdenziale tende a stare in equilibrio soltanto se l’economia cresce – e perciò la gente lavora, aumenta il reddito medio, aumenta il gettito fiscale – e viene adeguata l’età pensionabile alla speranza di vita. E qui sta il problema: proprio in queste settimane si sta discutendo di bloccare gli adeguamenti alla speranza di vita che il sistema, già di per sé, opportunamente prevede, essendo uno dei suoi punti di forza. La risposta, perciò, è inevitabilmente complessa. Il sistema, con questi meccanismi di adeguamento alla speranza di vita, è complessivamente buono nella sua impostazione; se però, ogniqualvolta bisogna adeguare l’età pensionabile alla crescente aspettative di vita, si fa un passo indietro per ragioni di consenso elettorale di breve periodo, allora qualsiasi sistema sulla carta eccellente diviene insostenibile. In sintesi: siamo messi meglio di tanti altri Paesi ma non possiamo assolutamente permetterci di fare passi indietro. E comunque, nei sistemi demograficamente maturi come il nostro, per soddisfare i bisogni di mantenimento del tenore di vita, è inevitabile lasciare nel tempo maggior spazio ad un sistema a capitalizzazione piena e perciò, giocoforza, alla previdenza individuale.

2.       A proposito del problema demografico: una società che ha raggiunto la maturità demografica può sperare di risolvere i propri problemi di natalità attraverso l’immigrazione? Insomma è vero, come si va ripentendo meccanicamente, che gli immigrati ci pagheranno le pensioni?

Certamente gli immigrati non genereranno nei prossimi anni un ammontare contributivo tale da coprire interamente la spesa pensionistica. Però danno un oggettivo contributo. Peraltro anche per ragioni che, dal punto di vista strettamente etico, non sono auspicabili. Parte dei contribuiti versati, infatti, non ritorneranno ai contribuenti immigrati sotto forma di pensioni. I sistemi previdenziali non sono osmotici. Perciò se un cittadino nigeriano lavora in Italia per cinque anni e poi torna in Nigeria, difficilmente i 5 anni di contributi versati nelle casse dell’INPS saranno da lui recuperati sotto forma di pensione erogata dall’Ente Previdenziale nigeriano. I contributi versati dai lavoratori immigrati hanno dunque un valore di equilibrio potenzialmente maggiore per il sistema pensionistico. Ne consegue che l’immigrazione, se ben regolata e ben gestita, ha un ritorno economico positivo anche dal punto di vista previdenziale. Certo eviterei di vedere nell’immigrazione una soluzione palingenetica, ma anch’essa può aiutare a garantire la tenuta del sistema.

3.       Tornando a noi: come può la previdenza privata intervenire nel sistema di previdenza pubblica? Quali le prospettive della previdenza complementare nei prossimi anni?

Ad eccezione del modello c.d. cileno, le forme di previdenza privata nei sistemi pensionistici occidentali hanno natura complementare, cioè affiancano le prestazioni previdenziali erogate dal sistema pubblico. Anche in questo caso, è necessario riconoscere che la previdenza complementare non può rappresentare la c.d. killer application. In effetti, i tempi di adesione al modello di previdenza complementare sono lunghi e la sua diffusione inevitabilmente graduale. In realtà, non può che essere così se l’adesione non è obbligatoria.

Se si pensa che le prime forme di previdenza privata nascono in Italia intorno agli anni ’90, è evidente che il sistema di previdenza complementare iniziale non è ancora a regime; sono ancora pochissimi coloro che incassano pensioni maturate nella previdenza complementare. Le prospettive future della previdenza complementare vedono un aumento del suo ruolo: nei prossimi anni, essa sarà chiamata ad integrare un assegno pensionistico inevitabilmente calante, che diminuisce quanto più aumenta la speranza di vita. Se infatti la vita media si allunga, lo stesso ammontare di risorse previdenziali genererà una pensione pro capite più bassa. Perciò ci sarà una maggiore necessità di risorse previdenziali e, siccome tutti concordano nel ritenere che l’intervento statale nell’area previdenziale non può in nessun modo essere ulteriormente ampliato – pena l’impossibile incremento del cuneo fiscale – la previdenza complementare rappresenterà una inevitabile alternativa. Anzi, visto che le manovre finanziarie degli ultimi anni hanno pesantemente inciso se non sui diritti acquisiti quantomeno sulle aspettative legittime, la fiducia nei confronti del sistema pensionistico pubblico andrà progressivamente diminuendo. E, di conseguenza, potranno aumentare le adesioni ai sistemi di previdenza complementare. Quante, tuttavia, potranno essere le risorse destinate al risparmio previdenziale privato? Se la contribuzione all’Inps è oltre al 30%, difficilmente, anche nei settori più generosi con i propri collaboratori, la contribuzione privata potrà superare il 10%. Lo squilibrio fra previdenza pubblica e privata continuerà ad essere netto. Ovviamente, molto dipende dalle riforme che si intende attuare: ad esempio, uno dei limiti della (benemerita) riforma Fornero è  di non aver accompagnato ad una ristrutturazione della previdenza pubblica, una corrispondente riforma della previdenza privata. Anzi, l’unico intervento in materia di previdenza complementare dopo la riforma Fornero va nella direzione opposta: la tassazione sul rendimento degli asset previdenziali privati è stata aumentata negli ultimi anni, portando l’aliquota d’imposta dall’11% a 20%.

4.       Ma una sostituzione tout court della previdenza pubblica con sistemi di previdenza privata è possibile?

Dipende da cosa si intende per possibile. Se la domanda è: sarebbe politicamente realizzabile, allo stato attuale e in un orizzonte temporale prevedibile, una completa sostituzione della previdenza pubblica con modelli di risparmio pensionistico privato? Allora la risposta non può che essere negativa. Soppiantare il modello Inps con sistemi di previdenza privata sarebbe un progetto rivoluzionario che difficilmente potrà vedere la luce in un paese come l’Italia. Se, invece, si ragiona sul piano prettamente teorico, le riflessioni che sono state fatte intorno al modello pensato e realizzato in Cile da  José Pinera (Ministro del lavoro e della Sicurezza Sociale dal 1978 al 1980 nel governo Pinochet, ndr) hanno dimostrato che, anche per parte significativa, il passaggio ad un sistema a capitalizzazione pura è fattibile. Tutto ciò sarebbe però reso ancora più complicato in Italia dall’elevato debito pubblico. Così elevato che non v’è certo spazio per farne dell’altro. 

5.       Come tuttavia poter conciliare un sistema a capitalizzazione pura con il principio solidaristico che informa la Carta Costituzionale?

Nel progetto Pinera – per portare ancora l’esempio dell’unico sistema a capitalizzazione pressoché pura che sia stato realizzato – esiste l’istituto della pensione minima. Anche chi non accumula, e perciò non capitalizza alcunché, ha diritto ad un minimo, che è quello che la società stabilisce in base alle sue risorse. Perciò il solidarismo non è affatto incompatibile con un sistema previdenziale a capitalizzazione. Volendo dare al ragionamento un respiro più ampio, lo stesso Friedrich Von Hayek – il cui pensiero a mio parere influenza l’opera di Pinera- afferma chiaramente che la great society può permettersi di aiutare chi rimane indietro, a condizione, però, che agisca in modo trasparente, dedicato, con lo scopo precipuo di debellare la povertà assoluta. Solidarismo e capitalizzazione, dunque, possono convivere attraverso soluzioni mirate come la pensione minima garantita a tutti.

6.       Qual è la categoria di lavoratori maggiormente svantaggiata nell’attuale sistema previdenziale??

In linea di massima, chi versa contributi alla gestione separata Inps è sicuramente più svantaggiato. Se i contributi che questi lavoratori sono costretti a versare all’Inps fossero investiti in forme di risparmio privato, percepirebbero assegni pensionistici più dignitosi. Inoltre è presumibile che questi soggetti abbiano redditi più discontinui.

Se però, più che di categorie di lavori, parliamo di categorie di cittadini, allora indubbiamente i più penalizzati sono i giovani, come purtroppo spesso accade nel nostro paese. Le loro pensioni saranno inevitabilmente più vicine all’equità attuariale rispetto alle generazioni precedenti, mentre il cuneo fiscale che finanzia le pensioni delle generazioni precedenti è un oggettivo limite allo sviluppo dell’occupazione, anche giovanile. 

7.       Quali sono gli interventi che andrebbero fatti sul sistema previdenziale nel prossimo futuro? C’è qualche modello, magari in Europa, cui ispirarsi?

Come ho già detto, il sistema previdenziale italiano, a legislazione vigente, è tra i più sostenibili sotto il profilo economico. In questo campo, nessuno può impartirci lezioni. Alle imperfezioni del sistema italiano si può rimediare, più che prendendo ad esempio gli altri Paesi, guardando ai modelli teorici. Tutti sanno cosa andrebbe fatto per migliorare la tenuta dell’apparato pensionistico, senza bisogno di chiedere a francesi, inglesi o tedeschi. Volendo dare qualche suggerimento al policy maker, anche a titolo di esempio potremmo individuare 3 linee di intervento: 

1.       Rivedere la tassazione così come è stato fatto per i PIR (Piani Individuali di Risparmio, strumento che è stato concepito per portare capitale alle piccole-medie imprese ma che possiede anche un potenziale previdenziale). Per i PIR come noto non c’è deduzione sul versamento, però è tassato zero il rendimento. Bisognerebbe trovare il coraggio di estendere una simile soluzione a tutta l’area previdenziale: eliminando, magari, le agevolazioni in fase di erogazione della rendita e spostandole sul rendimento più che sulla contribuzione (c.d. modello EET, esenzione-esenzione-tassazione), allo scopo di creare un sistema più semplice ed intellegibile. Qualsiasi intervento sul sistema previdenziale, dunque, deve anzitutto dimostrare maggior audacia dal punto di vista fiscale.

2.       Rendere riversibile il conferimento del TFR ai fondi pensione. Dare cioè la possibilità di tornare sui propri passi e recuperare il TFR, perché se il lavoratore pensa che non potrà  farlo, non è neppure incentivato a conferirlo.

3.        Da ultimo e non meno importante – e in questo caso non è necessaria un’innovazione legislativa ma è sufficiente dare attuazione al meccanismo delineato dalla normativa attualmente vigente – non cedere assolutamente sull’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita per quanto riguarda il primo pilastro.

Per concludere, i tempi potrebbero anche essere ormai maturi per iniziare a sperimentare, anche con prudenza e in misura parziale, un graduale avvicinamento ad un sistema a capitalizzazione.

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