A cura di Thilina Dulanjana Fernando Muthuwadige-
Gli sgoccioli di questa XXVII Legislatura sono stati contraddistinti dalla calendarizzazione delle cosiddette leggi di “civiltà”. Mentre il provveddimento sul biotestamento è stato celermente approvato, il ddl sullo ius soli è stato confinato all’ultimo punto del calendario, con il risultato che la discussione e l’approvazione dello stesso sono divenute, di fatto, una remota possibilità. La legge sulla riforma della cittadinanza probabilmente non si farà, ma questo non è un male, a parere di chi scrive, dato che si tratta di un provvedimento non voluto da gran parte della classe politica, nonché dalla vox populi prevalente. Sarà necessario attendere tempi più maturi, che non sono ancora arrivati.
Ponendo l’attenzione sul merito, il disegno di legge sullo ius soli si sostanzia in un ampliamento dei criteri per ottenere la cittadinanza italiana e riguarda soprattutto i minori nati in Italia da genitori stranieri o arrivati in Italia da bambini. Secondo il ddl può diventare cittadino italiano chi è nato in Italia da genitori stranieri, se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proviene dall’Unione Europea, deve: avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; disporre di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; superare un test di conoscenza della lingua italiana. Serve comunque una dichiarazione di volontà di un genitore o di chi esercita la responsabilità genitoriale, da presentare al comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. In assenza della dichiarazione, chi vuole diventare cittadino italiano può farne richiesta entro due anni dal raggiungimento della maggiore età. Per gli stranieri nati e residenti in Italia legalmente senza interruzioni fino a 18 anni, il termine per la dichiarazione di acquisto della cittadinanza viene aumentato da uno a due anni dal raggiungimento della maggiore età.
C’è un’altra via per ottenere la cittadinanza per i minori stranieri. In questo caso si parla di ius culturae: potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (scuole elementari o medie). I giovani nati all’estero, che giungono in Italia fra i 12 e i 18 anni, potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico. Inoltre serve che il ciclo delle scuole primarie sia superato con successo: quindi chi viene bocciato alle elementari dovrà aspettare per chiedere la cittadinanza.
Si tratta di un provvedimento che si è esposto a critiche da più parti. Innanzitutto va evidenziato che il disegno di legge non prevede l’applicazione dello ius soli puro, in quanto non verrà data la possibilità a tutti i bambini che nascono in Italia, indiscriminatamente, di essere cittadini italiani: è un diritto “del suolo” temperato e non automatico, che tiene conto della posizione geografica dell’Italia, quale approdo costante dei migranti.
Nel mirino dell’opinione pubblica sono gli spettri della spinta immigratoria e della sostituzione etnica. Da che mondo è mondo gli immigrati di altri paesi sono attratti dalle condizioni economiche della popolazione del territorio che si vuole raggiungere, più vantaggiose di quelle che si lasciano alle spalle; l’acquisto della cittadinanza è un passo solo eventuale, di conseguenza la spinta immigratoria e il riconoscimento della cittadinanza sono questioni svinvolate tra loro. Inoltre lo ius soli non ha niente a che vedere con l’immigrazione clandestina e gli sbarchi che avvengono sulle nostre coste. La legge riguarda solo i figli di genitori che già risiedono in Italia, sono regolari e hanno tutti i documenti in regola. Non si attuerà neanche la cosiddetta “sostituzione etnica” perché il ddl fermo in Senato non riguarda tutti i migranti regolarmente residenti, ma solo i minorenni figli dei migranti nati o cresciuti in Italia. Gli unici migranti sopra i 18 anni che potranno usufruire della legge, sono quelli interessati dalla norma transitoria che rende il provvedimento retroattivo. Non cambiano le regole per la naturalizzazione degli adulti, per cui continuerà ad essere applicata la legge n. 91 del 1992.
A chi sostiene che l’approvazione della legge porterà troppe persone a beneficiare dei diritti legati alla cittadinanza va eccepito che c’è un equivoco di fondo. Infatti, l’Unione Europea oggi ci impone di attribuire agli stranieri regolarmente residenti in Italia un novero di diritti e di servizi (welfare, assistenza sanitaria, servizi, scuole, ecc.) equivalente a quello dei cittadini italiani: in breve, tutti i diritti sociali tranne quelli politici. Con il riconoscimento della cittadinanza, i beneficiari del provvedimento potranno, in più rispetto a ciò di cui già dispongono, esercitare il diritto di voto e godere della libertà di movimento, ossia potranno spostarsi liberamente in tutti i paesi con cui l’Italia ha degli accordi. D’altra parte che senso ha continuare ad avere delle persone che non hanno modo di integrarsi al cento per cento e sentirsi parte di questa società?
Un altro rischio paventato dai detrattori del ddl è quello del terrorismo. Infatti i vari attentati succedutisi in Europa negli ultimi anni sovente sono stati perpetrati da terroristi che avevano la cittadinanza del Paese in cui sono cresciuti. Va rilevato che con l’allargamento delle maglie dei requisiti dell’acquisto della cittadinanza risulterà più difficile ricorrere all’espulsione dei potenziali terroristi (spesso immigrati di seconda o terza generazione), strumento di cui le autorità italiane si sono avvalse con assiduità negli ultimi due anni. I provvedimenti di espulsione costituiscono tuttavia un palliativo, una soluzione estemporanea e a breve termine. Una soluzione più lungimirante dovrebbe tener conto della circostanza che i “combattenti” sono persone non integrate da una società che li ha lasciati ai margini e ha offerto loro scarse possibilità di riscatto rispetto alla situazione di svantaggio dalla quale partivano e che vedono nello Stato islamico un orizzonte per realizzare se stessi. Una visione autenticamente liberale richiederebbe che sia attuato il principio dell’uguaglianza nei punti di partenza, portando alla crescita di giovani maggiormente integrati e conseguentemente più difficile da “arruolare”. I ragazzi e le ragazze che verrebbero incisi da questo provvedimento si trovano spesso in una sorta di limbo, visto che si considerano “stranieri” in Italia e “stranieri” nel paese d’origine dei loro genitori. Con il riconoscimento della cittadinanza verrebbe mandato un messaggio di inclusione il cui peso non va sottovalutato, contribuendo a rinvigorire il senso di appartenenza.
La cittadinanza può essere percepita come un dato scontato da chi l’ha acquistata alla nascita, ma per comprenderne il valore si può fare cenno ad un episodio della vita di Paolo di Tarso, cittadino romano fin dalla nascita: egli predicava a Gerusalemme, quando la popolazione ebraica insorse e lo fece arrestare. Portato dinanzi al tribuno Lisia, questi si preparò a farlo flagellare, quando San Paolo dichiarò: “Civis Romanus sum”. Il tribuno, allarmato, ordinò subito di rilasciarlo, poiché nessun cittadino romano poteva essere sottoposto ad atti e provvedimenti giurisdizionali a cui era sottratto in quanto cittadino. Due anni dopo San Paolo ripetè la stessa frase nel processo davanti al procuratore Festo quando si appellò all’imperatore, ottenendo di essere giudicato a Roma da Nerone.