A cura di Francesca Muccio-
1. Prof. Capponi, da più parti, oramai, sentiamo dire che la giustizia è in crisi. Sul tema lei ha scritto, nel 2015, un libro: “Salviamo la giustizia civile”. Qual è la situazione attuale?
Quando ero giovane magistrato la crisi era nel mancato accesso alla giustizia per i gruppi, gli interessi collettivi, i cc.dd. nuovi diritti. Oggi la parola d’ordine è, piuttosto, respingimento dei contenziosi. La qualità, e quindi l’accettabilità, delle sentenze civili non è in crescita, ma, d’altro lato, i magistrati lavorano in condizioni difficilissime. La crisi della giustizia non si risolverà se non con risorse eccezionali: investimenti, modelli organizzativi, cultura. Dagli anni ’90 si sono più volte riscritti gli articoli del c.p.c.; ora si è capito che i continui mutamenti, anche quelli giurisprudenziali a norme invariate, non vanno nella giusta direzione. V’è il problema della qualità complessiva della legislazione: il giudice è il terminale di conflitti che andrebbero risolti prima. La crisi della giustizia civile è divenuta un problema sociale, un fenomeno dinanzi al quale rassegnarsi, come per le catastrofi naturali. Chi inizia una causa non ha certezze: né sui tempi, né sui costi, né sui risultati.
2. Massiccio è stato, negli ultimi anni, l’impiego di magistrati onorari, giurisperiti non togati e dalla nomina temporanea, tant’è che essi avanzano incalzanti istanze di stabilizzazione. È un processo incontrovertibile? Come lo valuta?
I giudici onorari sono sempre esistiti. Dall’ ‘800, il conciliatore (nel ’91 sostituito dal giudice di pace) ha deciso il contenzioso “minore” (l’80% del totale civile), senza agganciarsi, quale giudice laico, a quello professionale. Oggi l’onorario è un surrogato di quello professionale, seppur privo delle sue garanzie di stabilità, di carriera ed economiche, persino in grado d’appello. È stato miope reclutare così tanti onorari, che costano meno e dovrebbero, in teoria, avere meno pretese sul piano istituzionale. Ora è ovvio che tale differenza di statuto, tra giudice onorario e professionale, non pare più giustificabile.
3. A chi giova una giustizia lenta, professore? La giustizia civile paga e, se sì, quanto lo scotto di essere, a volte, “la cenerentola” di quella penale, che suscita un’onda mediatica ed emotiva maggiore?
La giustizia civile e quella penale sono molto diverse tra loro e sembra strano siano amministrate da magistrati dello stesso ordine. Se posto nel medesimo ordine di quello penale, anche il giudice amministrativo (a cui più simile è quello civile) perderebbe molti dei caratteri che lo rendono, nonostante tutto, modestamente efficiente. Quanto alla lentezza, è sempre il più debole a pagarla. Il difettoso funzionamento del servizio pubblico penalizza chi non ha alternative, e la giustizia non fa eccezione.
4. La tendenza al ricorso ai cc.dd. strumenti alternativi di giustizia incide sul diritto del singolo, costituzionalmente sancito, ad una tutela giurisdizionale effettiva?
Gli strumenti alternativi sono una gran cosa, ma ne va verificata la gestione. Considerandolo tra di essi, l’arbitrato è una valida alternativa alla giustizia ordinaria, seppur costoso; l’ABF funziona piuttosto bene, seppur con limiti di competenza ed effettività (la sanzione “reputazionale” è alternativa all’esecuzione forzata). Ma gli organismi gestiti da associazioni ed enti possono dare amare sorprese. Il media-conciliatore deve avere una sua professionalità, non coincidente con quella del giurista, che applica regole tecniche (per tutte, il principio della domanda). Mi sembra, però, che, spesso, egli operi su un piano virtuale, sperando che le parti si accordino da sole. Il nostro, poi, è un popolo causidico e lo stare in causa può essere fine a se stesso. Non a caso, in vecchi manuali e sentenze, non di rado si parla di atti “in odio” alla controparte.
5. La crisi della motivazione della sentenza potrebbe essere specchio di una più generale crisi della certezza del diritto o è questa una visione inutilmente catastrofica?
Una volta la sentenza era la fotografia del processo; oggi, tutto concesso, può “fotografare” la decisione. Vi sono motivazioni così contratte da non lasciar capire il fatto. Ed il rinvio “per relationem” è abusato. La riforma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. ha limitato il controllo della motivazione in Cassazione. Ma, prima, altre riforme hanno eliminato l’obbligo della sua adeguatezza e, così, la distinzione tra sentenza e ordinanza. Le sentenze attuali sono incomprensibili per il cittadino e, a volte, pure per il tecnico. Per scrivere poco occorre essere molto bravi ma, purtroppo, non tutti lo sono.
6. Lei scrive che urgono energie giovani per rinnovare l’amministrazione della giustizia. Eppure l’età media di uditori giudiziari e altri professionisti del settore giudiziario è più alta che nel passato. Pensa che tornare alla laurea quadriennale possa essere un bene?
La quadriennale andava bene. Ai miei tempi, i giovani magistrati avevano 22-24 anni ed il concorso si faceva subito dopo l’università. Poi è arrivata la laurea breve, inutile, e la specialistica è diventata ordinaria, dunque l’unica utile. Si è avuta quindi la proliferazione degli insegnamenti e la loro semestralizzazione, che non è, per tutti, un bene. Come non è per tutti giovevole la parcellizzazione delle materie. Il corso di studi quinquennale e il tirocinio (o la SSPL), per provare a fare un buon concorso o iniziare una professione, portano i giovani magistrati ad avere, in media, 30 anni. Inoltre, appena laureati, non si ha la dimensione pratica. La si vuole acquisire nelle scuole, gestite, però, dai docenti con cui si è frequentata l’università. È un controsenso, perché quello del giurista non è un mestiere, ma una professione.
7. Ha scritto diversi libri che, con ironia, gettano luce su questioni, anche spinose, in ambito giuridico, ma non solo. Quali sono, se vi sono, le affinità che coglie tra diritto e letteratura? C’è bisogno, oggi, di ironia?
Scrivo di letteratura (parola molto grossa) compiuti i 50 anni, stanco di trattare solo questioni tecniche. Il diritto è costrizione, la letteratura libertà. Io mi considero a metà strada, perché i miei libri non di diritto sono, comunque, ad esso collegati. L’ironia è come il coraggio di Don Abbondio: se non ce l’hai, non te la puoi dare. Chi non ce l’ha non ha le idee chiare, e la confonde con la cattiveria. L’ironia è tutt’altro: spesso si rivolge contro se stessi, e chi ne ha molta tende ad amare molto proprio se stesso.