A cura di Leonardo Cappuccilli
Con la collaborazione della Prof.ssa Chiara Oldani-
La competizione tra gli individui è stata al centro del dibattito economico sin dagli albori dell’economia moderna, vale a dire a partire dagli studi di Adam Smith. Ne “La ricchezza delle nazioni” egli afferma che porre ostacoli alla concorrenza, ad esempio istituendo le corporazioni o i monopoli statali, genera distorsioni e diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza che limitano la libera iniziativa degli individui e introducono un gap tra il prodotto potenziale e quello effettivo, e dunque diffida i governi dall’intervenire in tal senso, mentre li incoraggia a favorire l’apertura dei mercati. Nel pensiero marxista, la competizione, declinandosi nel conflitto tra borghesia e proletariato, assume un chiaro connotato politico, ma affonda le sue radici nell’economia e in particolare nella realtà della fabbrica, in cui nasceva il disagio del ceto operaio. Il dibattito sulla lotta di classe fu arricchito da posizioni filo-rivoluzionarie (Sorel, Lenin, Gramsci) e riformiste (Bernstein, Turati), dalla dottrina sociale della Chiesa (enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII, 1891) e infine dalle tesi corporativiste. Queste concezioni influenzarono le ideologie di stampo nazional-socialista che salirono al potere in Italia, Germania e Spagna, ma anche l’operato di governi sostenuti da partiti liberali o socialdemocratici. Tra gli economisti che guardavano con interesse agli esperimenti sociali in atto nel vecchio continente vi fu John M. Keynes. Nel secondo ‘900 il dibattito economico si è concentrato sul ruolo che lo Stato dovesse ricoprire all’interno dell’agone economico. Le intuizioni di Keynes, considerate rivoluzionarie rispetto al paradigma economico neoclassico, furono sviluppate e applicate nel coordinamento delle politiche fiscali e monetarie. Intorno alla metà degli anni ’70, mentre i prezzi delle materie prime si impennavano in seguito allo shock causato dalle crisi petrolifere e la produzione industriale entrava in fase di stallo, il keynesian consensus giunse al termine. Iniziò quindi una nuova fase storica e politica che vide un ritorno delle politiche di stampo liberale e conservatore e l’ascesa al potere di forze moderate. Il passaggio dal XX secolo al nuovo millennio ha introdotto numerose novità nel panorama politico ed economico mondiale: la quarta rivoluzione industriale e l’avvento di Internet hanno reso le telecomunicazioni più veloci e meno costose; il crollo del blocco sovietico ha posto fine alla minaccia di un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Russia; la Cina, destinata con ogni probabilità a diventare l’ago della bilancia degli equilibri geopolitici, ha fatto il suo ingresso nei mercati globali entrando a far parte, nel 2001, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il mondo ha assistito dunque a un cambio d’epoca, ed è entrato nell’era della Globalizzazione. In questo scenario del tutto nuovo, la competizione economica ha assunto un carattere internazionale e si è declinata nella gara tra i grandi Paesi produttori ed esportatori per affermarsi nel commercio globale, le cui quote sono divise tra un numero sempre maggiore di Stati. Di fronte a simili dinamiche, acquista un’importanza non trascurabile il tema della competitività dei sistemi economici. La competitività delle nazioni riguarda la loro capacità di confrontarsi con i propri partner e concorrenti, sulla base di regole imparziali, sui mercati internazionali, al fine di incrementare il benessere delle popolazioni. La teoria economica e l’osservazione empirica della realtà hanno accertato che il raggiungimento del vantaggio competitivo, strumentale al miglioramento delle condizioni materiali di un Paese, passa attraverso il concretamento di alcune circostanze di ordine politico, economico e sociale. Gli studi del Professor Michael Porter hanno messo in evidenza l’importanza dell’ambiente competitivo in cui si trovano ad operare le imprese di ciascuna nazione, identificando le condizioni ideali per il conseguimento di una posizione di rilievo nel commercio mondiale. Il modello del diamante riassume i fattori che influiscono maggiormente sulle prestazioni di un’industria, e assegna un ruolo importante a due elementi esogeni rispetto al mondo delle imprese, ossia “il caso” e i governi. Porter sollecita gli Stati ad investire nella formazione e nella specializzazione dei fattori produttivi, a favorire la creazione di mercati concorrenziali sia all’interno che al di fuori dei confini nazionali, e quindi ad incentivare una rivalità costruttiva che spinga le aziende a migliorare i propri sistemi di produzione e i propri prodotti, soprattutto attraverso investimenti in ricerca e sviluppo. Tali investimenti producono, infatti, l’avanzamento tecnologico e l’introduzione di innovazioni, che consentono incrementi quantitativi e qualitativi dell’output. Questo processo, se mantenuto costante nel tempo, comporta il miglioramento della competitività dell’area geografica in cui quelle imprese sono attive. L’affermazione di un modello di sviluppo nello scenario internazionale non può che transitare per il miglioramento delle conoscenze tecnico-scientifiche e per l’affinamento delle competenze specifiche e, in ultima analisi, non può prescindere da una maggiore e più efficace circolazione delle idee. La competitività delle nazioni non può essere misurata, pertanto, attraverso un mero confronto tra i prezzi relativi dei prodotti messi in commercio dai diversi Paesi, perché riguarda il grado di sviluppo dei sistemi economici nel loro complesso, e non la semplice differenza tra i costi delle produzioni. Affinché si inneschino simili dinamiche virtuose, è necessario che sussistano le condizioni istituzionali favorevoli. Di importanza primaria è lo stato delle infrastrutture di cui è dotata una nazione, la qualità dell’istruzione primaria, superiore ed universitaria, la sanità, il rispetto dei diritti individuali, politici ed economici delle persone. Ma quel che appare ancora più importante, al fine di raggiungere il vantaggio competitivo, è l’attenzione dello Stato per le reali esigenze del sistema economico. Il prelievo fiscale sui redditi da lavoro, in particolare, incide direttamente, al verificarsi di determinate condizioni, sul costo che le imprese sostengono per remunerare la manodopera. Ciò può determinare uno svantaggio per quegli Stati in cui la tassazione risulta più elevata a causa di fattori di ordine politico (maggiore intervento del settore pubblico, sistema di welfare più esteso) o economico (ad esempio, il livello di indebitamento). È possibile confrontare gli indicatori economici relativi ai diversi Paesi per stabilire quali siano effettivamente competitivi e quali, al contrario, non siano stati ancora in grado di cogliere la sfida della concorrenza internazionale. Un simile confronto viene svolto annualmente dal World Economic Forum, il quale dal 2005 pubblica il Global Competitiveness Report, in cui vengono valutate le performance di 138 Stati in base all’indice appositamente studiato – il Global Competitiveness Index. Tra i Paesi qui considerati, gli Stati Uniti sono quello che ha ottenuto la posizione migliore all’interno della classifica stilata dal WEF per il 2015 (terzo su 138 Stati), seguiti dalla Germania (quinto posto). L’Italia si colloca nella prima parte della graduatoria, ma non va oltre la quarantaquattresima posizione, mentre la Turchia si attesta al cinquantacinquesimo posto. La classifica è dominata dalla Svizzera ed è chiusa dallo Yemen; sul podio, oltre agli già citati Stati Uniti, si trova anche Singapore. La Germania, Paese con un costo del lavoro molto elevato e una tassazione superiore ai livelli medi delle nazioni industrializzate, riesce ciononostante ad ottenere performance competitive molto positive. Questa circostanza non deve destare stupore, poiché il sistema tedesco può contare su un’industria molto ben sviluppata, con un’eccezionale capacità di innovare e di mettere in commercio prodotti di elevata qualità che, evidentemente, riscuotono grande successo presso i mercati internazionali. La competitività degli Stati Uniti, come quella della Germania, non si deve a particolari vantaggi di costo, ma ad un intenso sforzo innovativo, supportato da un sistema educativo funzionante e orientato alla ricerca e da un tessuto imprenditoriale dinamico, che ha alle spalle un mercato finanziario ben strutturato. In generale, appare corretto affermare che per valutare l’effetto (comunque, almeno in parte, distorsivo) del cuneo fiscale sul lavoro sui comportamenti degli agenti economici, occorre considerare gli eventuali benefici derivanti dal godimento di prestazioni che lo Stato eroga a favore dei cittadini. Tra queste vi sono gli assegni pensionistici, finanziati dai contributi che gravano su lavoratori e imprese, ma anche i sussidi di disoccupazione, forme di integrazione del reddito e altre misure assistenziali. È innegabile, tuttavia, che livelli di tassazione molto elevati, come quelli presenti in Italia, risultano sempre disincentivanti per l’attività economica, e lo sono in modo particolare se i contribuenti percepiscono che lo Stato non è in grado di allocare le risorse che ha a disposizione in maniera efficiente.
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