Biotestamento: pro e contro della normativa italiana

A cura di Elena Mandarà e Thilina Dulanjana Fernando Muthuwadige-

Intervista al Prof. D’Avack

Il 22 dicembre 2017 è stata approvata dal nostro Parlamento la legge n°219, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, nota all’opinione pubblica come Legge sul biotestamento.  Si tratta di un argomento a lungo discusso nel nostro Paese, a cui hanno fatto eco casi noti come quello di Emanuela Englaro o Welby, ricollegandolo anche al tema dell’eutanasia. Oggi finalmente l’Italia ha una legislazione a riguardo, e abbiamo discusso della recente legge con il Prof. D’Avack, docente della nostra Università ed ex Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica che è stato chiamato a più riprese ad esprimersi sul tema.

Professore, lei negli anni ha manifestato più volte la necessità per il Paese di dotarsi di una legislazione chiara, che limitasse l’interpretazione del giudice al fine di garantire certezza del diritto. Secondo lei, il testo che è stato approvato dal Parlamento è soddisfacente da questo punto di vista?

Il testo è un notevole passo avanti per l’Italia, poiché siamo stati uno fra gli ultimi Paesi a regolamentare questa vicenda del rapporto medico-paziente, un po’ come è avvenuto per la procreazione medicalmente assistita. Prima, mancando un normativa al riguardo, ci si è affidati alla giurisprudenza che, dovendo tenere conto di posizioni fra loro fortemente difformi, anche da un punto di vista strettamente etico (chi si è mosso dalla posizione di tutela del bene “vita”, chi, invece, si è mosso dalla tutela dell’autonomia dell’individuo ecc), ha dato vita a sentenze fra loro contrapposte. Questo lo abbiamo visto nello specifico sia nel caso Englaro che nel caso Welby, dove vi è stata una gran quantità di sentenze difformi l’una dall’altra. Tutto questo non garantiva certezza del diritto, né la tutela del paziente, nel senso che questo sapesse cosa poteva o non poteva chiedere e, naturalmente, non garantiva neanche il medico, che correva sempre dei rischi. Ad esempio, il dottor Riccio fu indagato per omicidio del consenziente quando staccò Welby dalla macchina. E, sebbene fu assolto sulla base dell’esimente dell’art 32 Cost, si trattò comunque di un giudizio penale molto pesante. Ritengo che la legge, come tutte le leggi, sarebbe potuta essere migliore sotto alcuni punti di vista, ma questo è inevitabile, tanto più nell’ambito di una vicenda che si è dovuta stringere nei tempi. Se fossero stati fatti correttivi al Senato, come da noi (membri del CNB) auspicato, ci si sarebbe trovati di fronte al rinvio alla Camera, con un ulteriore rimando dell’approvazione. Inoltre, a fronte di una giurisprudenza oscillante, non vi era alcun riconoscimento normativo sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (c.d. DAT), a mala pena concesse da qualche Comune o Regione. Punto fondamentale della normativa è dunque il riconoscimento delle DAT, sebbene possano essere mosse alcune critiche sotto alcuni punti di vista. Ad esempio, a mio parere, si sarebbe dovuto specificare che non fosse possibile ricorrere a dei prestampati e che, proprio perché coinvolgono anche vicende scientifiche, fossero sottoscritte da un medico,  cosicché il paziente potesse essere realmente informato sulle conseguenze derivanti dal rifiuto o dall’ accettazione di un determinato trattamento sanitario. Per quanto riguarda, comunque, la base normativa sul consenso informato, bisogna sottolineare che non si tratta di una normativa eutanasica , come qualcuno ha voluto sostenere. Eutanasia e rinuncia ad un trattamento sanitario sono due cose totalmente diverse, per quanto vi siano delle vicende assimilabili sotto certi punti di vista. E tutti i Paesi le hanno disciplinate separatamente: vi sono Paesi, come ad esempio l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo o la Svizzera, che hanno optato per l’eutanasia; altri, come la Francia, la Spagna, la Germania, la Gran Bretagna e, adesso, anche l’Italia, che hanno disciplinato il rifiuto al trattamento sanitario. L’art 1 della legge in questione precisa tutto questo, ed è importante che esplicitamente non venga fatta differenza fra trattamenti sanitari salvavita e non. Riconosce inoltre l’idratazione e la nutrizione come trattamenti sanitari, e questo era stato oggetto di grande dibattito, come possiamo ricordare ad esempio nel caso Englaro, in cui alcune correnti di pensiero ritenevano che non fossero qualificabili come trattamenti sanitari, ma semplicemente come trattamenti di sostegno. Qui, secondo l’indicazione dei maggiori organismi scientifici, viene detto chiaramente che si tratta di veri e propri trattamenti sanitari. La normativa riconosce inoltre come valida e legittima la sedazione profonda e continuata. Vi era la legge sulle cure palliative del 2010, ma questa non prevedeva ancora la sedazione profonda. Il CNB fu investito di questo problema, data la dubbia legittimità per la possibilità di ravvisare una certa vicinanza rispetto all’eutanasia. Il Comitato riconobbe la differenza fra questa e la sedazione profonda, che doveva comunque rispondere a determinati criteri, e ad oggi è riconosciuta fra le cure palliative, dando così al medico la possibilità di applicarla senza incorrere in rischi.

Come ha detto lei stesso, eutanasia e DAT sono due cose diverse, ma alcuni ritengono che questa legge rappresenti una sorta di anticamera alla legalizzazione dell’eutanasia. Secondo lei quali potrebbero essere i prossimi sviluppi legislativi?

Non ne ho la minima idea, nel senso che nel nostro Paese, così come negli altri, si discute continuamente sulla differenza fra le DAT e l’eutanasia, tenendo conto del fatto che comunque le DAT possono avere ad oggetto solo ciò che è ammesso dalla normativa, dunque non potranno mai prevedere l’eutanasia finchè questa non è disciplinata. Certo, potrebbe essere un primo passo verso quest’ulteriore ipotesi, ma le due cose sono profondamente diverse, per cui ritengo che se un Paese dovesse iniziare a tenere in considerazione l’eutanasia, non dovrebbe farlo muovendo dall’idea di base delle DAT, cioè la possibilità per il paziente di rinunciare ad un trattamento sanitario.

Alcuni hanno parlato di obiezione di coscienza, sottolineando comunque il diritto per il paziente a vedere attuate le disposizioni di cui alle DAT. Ritiene che l’ordinamento sanitario sia, per così dire, eticamente pronto a dare reale attuazione a questa legge oppure, come nel caso dell’aborto, potrebbe esservi un vero e proprio ostacolo all’esercizio del diritto?

Intanto devo dire che un vulnus di questa normativa è dato proprio dall’assenza dell’obiezione di coscienza. Non è previsto espressamente nella normativa tale diritto, a differenza di quanto avviene ad esempio nella normativa sull’aborto, nella legge sulla procreazione medicalmente assistita o in quella sulla sperimentazione animale, nelle quali è presente perché, trovandoci in una società da un punto di vista etico pluralista, è possibile muovere dall’idea che il medico possa ritenere non etico far cessare la vita di qualcuno attraverso il suo operato. Sarebbe stato logico prevedere dunque l’obiezione di coscienza, per quanto questa possa essere desunta attraverso una lettura ermeneutica della normativa. L’art. 9 di tale normativa, infatti, fa un’operazione tipica dell’obiezione di coscienza, affermando che comunque le strutture sanitarie pubbliche e private devono garantire l’attuazione della volontà del paziente. Interpretando in via estensiva questa norma si può dunque ritenere che il legislatore preveda indirettamente l’obiezione di coscienza. La legge avrebbe comunque dovuto dirlo espressamente, tenendo conto del fatto che fra le strutture sanitarie private, di cui al sopra citato art. 9, vi sono anche quelle cattoliche, nelle quali risulta difficile obbligare un medico ad interrompere un trattamento sanitario salvavita. Non nego che molto probabilmente verrà sollevata la questione di legittimità di fronte alla Corte Costituzionale su questo punto.

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