Villanova e Houston: il basket vincente del futuro

A cura di Axel Tosco

Il torneo NCAA, che vede affrontarsi annualmente le migliori 64 squadre a livello collegiale degli Stati Uniti e che, svolgendosi nel mese di marzo, è anche denominato “March Madness”, ha coronato vincitori i Villanova Wildcats.
L’università del nord-ovest di Philadelphia ha ottenuto il suo secondo successo negli ultimi tre anni, a testimonianza dell’eccellenza raggiunta nel reclutamento e nella programmazione del progetto intrapreso sotto la guida di coach Jay Wright.
Da “Cenerentola” nel 1985 (anno del primo titolo con lo storico e compianto allenatore Rollie Massimino) e nel 2016 (in cui il tiro sulla sirena di Kris Jenkins pose il sigillo vincente su una delle finali più elettrizzanti ed entusiasmanti della storia), i Wildcats si sono trasformati in una consolidata istituzione nel panorama cestistico universitario.
Wright, come ricordato dalla sua punta di diamante Jalen Brunson al termine della gara che è valsa il terzo titolo per l’ateneo, si è reso artefice dell’impresa grazie alla dedizione e all’abilità nella selezione dei talenti secondo un criterio “etico”, quanto mai significativo in un’epoca di aspre controversie in merito alla mancata retribuzione degli atleti universitari e di scandali sulle illecite procedure di reclutamento perpetrate da alcuni illustri atenei.
Pur nella coerenza di un indirizzo ideologicamente e deontologicamente definito, da un punto di vista dei presupposti tecnici a fondamento degli ultimi due titoli siamo di fronte ad impostazioni radicalmente differenti.
Wright ha espressamente dichiarato, alla vigilia delle Final Four di San Antonio, di ispirarsi allo stile di gioco di Golden State e Houston, diverse interpretazioni e diramazioni di un’identica matrice concettuale.
Nel seguire la tendenza generale a privilegiare il tiro da tre, i Wildcats hanno costruito un nucleo relativamente ristretto di circa sette giocatori di rotazione, tutti specialisti nel fondamentale in questione. La scelta è ampiamente suffragata dall’evidenza dei fatti e dai dati statistici, che mostrano un incremento dell’efficienza offensiva data dalle migliori spaziature nella metà campo offensiva.
Al pari di Villanova, Houston sta demolendo i primati che riguardano i tentativi e le realizzazioni dalla lunga distanza su base stagionale, in un processo di continuo aggiornamento dei record in atto dalla stagione 2014-15, quando Steve Kerr prese la guida dei Golden State Warriors degli “Splash Brothers” Curry e Thompson.
Alla base di questi risultati sta un’estremizzazione della concezione di produttività, che ha condotto il General Manager degli Houston Rockets Daryl Morey a ripugnare, ad esclusivo vantaggio dei tiri dall’interno dell’area pitturata e dal perimetro, quelli dalla media distanza.
Per applicare una simile filosofia, Morey si è servito di un allenatore noto per il gusto della sperimentazione e per essere uno dei primi fautori di un’innovazione in questa direzione del basket, propugnata sin dai tempi in cui sedeva sulla panchina dei Phoenix Suns a metà dello scorso decennio: Mike D’Antoni.
L’italo-americano ha incontrato in pieno lo stile e la tecnica della stella della franchigia texana, James Harden, il cui potenziale da MVP era rimasto ancora parzialmente inespresso. Al “Barba” Harden sono state affidate le chiavi dell’attacco della squadra – esattamente come fu con Steve Nash nell’esperienza in Arizona di D’Antoni – ed è stato fornito il supporto di specialisti al tiro e di un playmaker del calibro di Chris Paul.
Mentre Golden State ha un’anima che si potrebbe identificare nel ritmo “up-tempo” e nella ricerca della spettacolarità tipici della “West Coast” e dunque ricerca le opportunità per correre in contropiede e condividere la palla, Houston accentra il gioco nelle mani del suo leader e sviluppa attraverso l’isolamento e gli scarichi sulle penetrazioni le principali finalizzazioni. Nonostante l’utilizzo del tiro da tre sia stato ulteriormente incrementato, quest’ultimo schema non si distacca particolarmente da quello adottato, attorno a LeBron James, dai Cleveland Cavaliers nel 2016-17.
Wright ha saputo cogliere degli elementi da entrambi i contesti, predicando la circolazione di palla parallelamente alla nozione condivisa per cui il leader e la fonte dell’attacco era Jalen Brunson, incaricato di assumersi le responsabilità nei momenti di difficoltà del gruppo.
A più riprese, e con crescente insistenza, gli analisti si sono soffermati sull’identificare e sviscerare il “bipolarismo” di cui soffrono, per loro stessa natura, le squadre imperniate su questi moderni precetti.
Si intuisce come il tiro da tre sia una soluzione teoricamente più fruttuosa, ma anche più rischiosa, del tiro da due. Ne consegue un’irregolarità di rendimento che oscilla perpetuamente tra percentuali realizzative altissime e bassissime e uno spostamento ad esse proporzionale dell’inerzia degli incontri.
L’esempio lampante in un verso è rappresentato dall’incontro di “semifinale” di Villanova contro Kansas, in cui i malcapitati Jayhawks sono stati sepolti da 18 triple nell’arco dei 40 minuti (record per il maggior numero di triple realizzate in una gara di Final Four).
Al contrario nell’avvio della partita di finale contro i Michigan Wolverines, i Wildcats hanno sofferto la pressione esercitata dalla magistrale difesa avversaria, la migliore a livello nazionale, incappando in palle perse e tiri falliti, sino al momento in cui sono riusciti a sbloccarsi mentalmente.
Il segreto del successo di una strategia moderna, che implichi un massiccio utilizzo delle triple, consiste dunque in una solida tenuta mentale ed in una identità forte al punto da riconoscersi sempre in uno o più trascinatori.

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