Il reato di tortura in Italia

A cura di Valeria Caforio

Tra le proposte di legge presentate il 12 luglio da Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati, vi è quella di riscrivere il reato di tortura, così come formulato dall’attuale articolo 613-bis del codice penale.

“Difendiamo chi ci difende” è il nome dell’iniziativa. In un video pubblicato su Facebook Giorgia Meloni parla di “tutelare gli uomini e le donne in divisa”. Come? Due le proposte: aumentare le pene per chi aggredisce un pubblico ufficiale (art. 336, 337 c.p.) e riscrivere il reato di tortura.

Secondo Fratelli d’Italia infatti, vi sarebbe una sproporzione – o meglio un paradosso – a livello sanzionatorio tra le due fattispecie: 6 mesi (stiamo parlando di minimo edittale) per chi aggredisce e 12 anni (massimo edittale; comminati al pubblico ufficiale, si intende) per chi viene aggredito – tiene a sottolineare “con minacce che causino un trauma psichico” – da un pubblico ufficiale. Il che, a detta loro, andrebbe evidentemente e semmai, invertito.

A parte l’incuranza posta sul fatto che il giudice applica la pena sulla base di precise regole dettate dalla legge (vedi articolo 132 del codice penale: utilizzo di un potere discrezionale da esercitarsi entro i limiti fissati dalla legge e dovere di motivare l’utilizzo del medesimo potere, ad esempio quanto alla congruità della pena), è interessante soffermarsi sulla fattispecie in sé del reato di tortura, come è stata introdotta e come è attualmente disciplinata nel nostro ordinamento.

Il reato di tortura è stato introdotto in Italia con l’entrata in vigore della legge n. 110/2017 “Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”, che ha inserito nel codice penale gli articoli 613-bis e 613-ter, disciplinanti rispettivamente la tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

Si è trattato di un evento estremamente significativo, avvenuto dopo lunghi anni di dibattiti parlamentari e a distanza di quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. Infatti, dall’entrata in vigore della legge di esecuzione nel 1988, l’Italia è stata fortemente criticata dalla comunità internazionale per non essersi dotata di una disciplina interna che prevedesse e punisse specificamente il reato di tortura.

Tale inadempimento ha avuto come conseguenza la condanna dello Stato italiano per la violazione degli obblighi convenzionali, sostanziali e procedurali, derivanti dall’articolo 3 CEDU che proibisce la tortura. Stiamo parlando in particolare dei casi Cestaro v. Italia e Bartesaghi, Gallo et al. v. Italia, avvenuti durante i noti fatti del G8 di Genova del 2001 e coinvolgenti giovani studenti aggrediti ingiustamente da parte delle forze dell’ordine. Con queste sentenze la Corte europea di giustizia ha condannato l’Italia al risarcimento del danno per non prevedere un reato di tortura ad hoc nel suo ordinamento.

 

Ma non finisce qui. Anche dopo l’approvazione del disegno di legge in Parlamento l’Italia ha continuato ad essere nel mirino delle critiche sia da parte dell’ONU che delle forze politiche e le associazioni che hanno ritenuto il testo di legge poco soddisfacente e più debole di quanto auspicato. Sotto il primo profilo, il Comitato ONU contro la tortura ha ritenuto che il testo di legge approvato dall’Italia nel 2017 non è conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Infatti, quest’ultima ha lo scopo di punire specificamente i casi di abuso di potere, mentre l’articolo 613-bis – nella formulazione uscita dalle camere – si limita a prevedere un reato comune, ascrivibile cioè a qualsiasi privato cittadino, e solo come aggravante disciplina l’ipotesi in cui il medesimo sia compiuto da un pubblico ufficiale. Aggravante esclusa, tra l’altro, dal terzo comma, nel caso in cui le sofferenze risultino unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Sotto il secondo profilo, in particolare il senatore Manconi – promotore e firmatario dell’originario disegno – denuncia il tradimento ai valori sottesi alla convenzione internazionale che aveva animato la redazione del testo di legge, da parte di un nuovo e stravolto testo che renderà la sua applicazione meno efficace. Rispetto alla formulazione originaria, infatti, per integrarsi la fattispecie di reato è richiesta una pluralità di condotte nella commissione del fatto, il che rende difficilmente perseguibili singoli episodi di violenza o un’unica condotta di tortura protratta nel tempo. Inoltre, quanto alle conseguenze della condotta, questa deve aver cagionato acute sofferenze fisiche o un trauma psichico concretamente verificabile, il che nuovamente rende meno agevole l’applicazione della fattispecie in questione.

Anche varie associazioni internazionali hanno sottolineato la volontà di non perseguire seriamente la violenza da parte di organi dell’apparato statale, con una legge che non si pone in linea con gli standard internazionali.

Ciò detto, ci si chiede allora come possa la deputata Meloni fare affermazioni semplicistiche quali “in Italia un agente può avere dodici anni di galera per minacce psichiche”.

Si tratta della solita forma di comunicazione perpetrata dai partiti politici via web, estremamente semplicistica e fuorviante. L’utilizzo di tweet, hashtag e video postati sui social network ha infatti una potenza persuasiva inaudita, tanto più grande se si considera la brevità e semplicità del messaggio che viene percepito così com’è, pronto e confezionato.

Questo fenomeno costituisce una minaccia insidiosa alla comprensione profonda di tematiche complesse quali sono quelle giuridiche e favorisce la circolazione di idee non sbagliate, non opinabili, ma false.

Perciò, nell’epoca della “rapidità” e della “facilità” compito del giurista è quello di restituire a questi temi la complessità e problematicità che gli è propria, in chiave critica e interpretativa, nonché facilmente accessibile.

Questo è solo uno dei possibili tentativi.

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