Intervista al Cavaliere del Lavoro Giancarlo Licitra, manager di LBG Sicilia S.r.l, impresa leader nel mondo nella produzione di farina di semi di carruba.

A cura di Francesco Mezzasalma-

 

Giancarlo Licitra, laureato in Economia e Management a Catania e specializzatosi a Roma in Direzione Aziendale, ha lavorato diversi anni per Ford Europa, sia in Italia che all’estero, per poi tornare nella sua terra natia, Ragusa.  E’ stato nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente Mattarella la scorsa primavera, ed è attualmente manager di LBG Sicilia S.r.l. LBG è un’azienda nata nel 1996 per la commercializzazione dei semi di carruba; nel 2000 Licitra modifica il core business iniziando a produrre farina di semi di carruba e realizzando uno stabilimento completamente automatizzato: in pochi anni diventa fornitore delle più grandi multinazionali in ambito alimentare. Situata nella zona sud-est della Sicilia, leader nel proprio settore – essendo la seconda esportatrice al mondo di farina di semi di carruba -, LBG produce più di tremila tonnellate di farina vendute in oltre ottanta paesi (tra cui anche Stati Uniti d’America, Cina e Giappone) ed impiega circa 30 persone.

 

Cosa produce LBG e a cosa servono questi prodotti?

 

LBG è specializzata nella produzione di ingredienti alimentari polifunzionali ed in particolare stabilizzanti e testurizzanti, cioè prodotti che danno una struttura a moltissimi alimenti, tra cui il gelato.

Il prodotto di punta è la farina di semi di carruba, di cui siamo secondi produttori al mondo, e dal 2013 abbiamo iniziato a produrre delle miscele ad hoc per i clienti, nelle quali non c’è solo la farina di semi di carruba, ma anche altre sostanze: riusciamo così a venire incontro alle singole esigenze. La carruba, in questo ambito commerciale, è uno dei prodotti più naturali in circolazione; ci sono poi altri stabilizzanti che, pur essendo ammessi nell’industria alimentare, hanno dei processi di produzione diversi: rispetto ad essi, non siamo produttori, ma ci limitiamo, all’occorrenza, a comprarli e miscelarli.

 

Che influenza hanno automazione e tecnologie all’avanguardia nel ciclo produttivo?

 

L’automazione, fin dall’inizio, ha assunto un ruolo fondamentale nella catena di produzione: sia perché in Italia il costo della manodopera è troppo elevato per poter competere con il resto del mondo, sia perché l’utilizzo di macchinari garantisce una maggiore qualità del prodotto. Proprio per questo motivo, ogni anno una parte del budget viene destinata allo sviluppo del processo produttivo e delle tecnologie impiegate.

 

Per quale ragione un imprenditore con questo volume di affari ha deciso di rimanere in Italia, anziché delocalizzare all’estero?

 

Oltre ad essere molto complesso trasferire un’azienda che lavora a pieno regime, siamo più vicini alla materia prima. Anche se – bisogna riconoscerlo- rimanere in Sicilia comporta non pochi inconvenienti.

 

Il fatto che l’Italia fa parte del Mercato Unico Europeo ha ripercussioni positive sulle esportazioni?

 

Contrariamente a quello che sostiene la vulgata, il mercato unico assicura numerosi vantaggi. Avere una moneta unica agevola significativamente gli scambi, sia tra paesi europei sia col resto del mondo. Senza una moneta unica ed un mercato europeo, difficilmente la mia azienda avrebbe raggiunto un export così elevato. Ma, più in generale, tutta l’Italia sarebbe più povera e meno sviluppata.

 

Con l’ingresso nell’UE, l’Italia ha aumentato la competizione e la libertà degli operatori economici. È questo un risultato positivo o negativo?

 

Senza dubbio positivo. La concorrenza aiuta a crescere ed una legislazione sui prodotti alimentari unitaria a livello europeo garantisce la competizione, leale e costruttiva, fra le imprese di tutti i Paesi Membri: tutti i soggetti economici, infatti, devono sottostare alle stesse regole, senza possibilità di strategie elusive.  

 

Quale giudizio dà delle politiche fiscali portate avanti dai governi italiani?

 

La pressione fiscale sulle aziende è enorme. Insostenibile. Sarebbe necessaria maggiore uniformità nelle politiche fiscali degli Stati europei, evitando squilibri eccessivi tra Paesi Membri, come accade, ad esempio, con l’Irlanda. In Italia paghiamo troppo, senza avere, dalle infrastrutture agli ospedali, servizi adeguati.

La forbice tra ciò che diamo allo Stato e ciò che ci torna indietro, sotto forma di servizi, è troppo ampia. Nel Bel Paese, in particolare in Sicilia, non abbiamo scuole pubbliche, autostrade, ferrovie ed ospedali all’altezza: non siamo nemmeno lontanamente al livello di qualsiasi altro Stato europeo con la nostra stessa pressione fiscale. La conseguenza può essere una soltanto: o si migliorano i servizi o si abbassano le tasse.  

 

Un imprenditore italiano parte svantaggiato rispetto ai competitors europei?

 

Tendenzialmente, sì. Dipende, tuttavia, dal settore di riferimento e dal livello di labour-intensive. Restando sul generico, il costo del lavoro e la pressione fiscale altissima rendono complessi, se non impossibili, la nascita e lo sviluppo delle imprese in Italia. Solo le aziende, come LBG, che puntano sullo sviluppo tecnologico ed hanno perciò un alto valore aggiunto, riescono a diminuire il gap rispetto ai concorrenti europei ed extra-europei.

 

Allora ci riveli il segreto: come si diventa leader nel proprio settore nonostante gli ostacoli imposti dal sistema paese? Quali consigli darebbe ai giovani che aspirano a diventare imprenditori?

 

L’ancora di salvezza è l’innovazione. Occorre sfruttare le tecnologie più all’avanguardia, anticipando i competitors. Le innovazioni possono essere molteplici, dai processi di produzione all’organizzazione aziendale. Bisogna essere flessibili, sapersi adattare e comprendere se ci sono sbocchi in altri settori: e il consiglio vale soprattutto per i siciliani, svantaggiati anche geograficamente.

Non c’è una ricetta perfetta, ogni attività ha le proprie peculiarità. Certamente la tecnologia è la chiave di volta, tant’è che le poche industrie che ci sono nel meridione sono ad alto coefficiente tecnologico. Al sud manca tutto: manca un’economia di sistema. E’ come se fossimo in un deserto e le poche industrie che lavorano siano dei fiori. In Sicilia è veramente raro che un’industria riesca a raggiunge grandi dimensioni, per una molteplicità di cause: tra tutte, la più importante è la forte mancanza di infrastrutture e servizi

Chi governa non capisce che bisognerebbe incentivare non soltanto coloro che già vivono al sud, ma anche quei soggetti che vorrebbero investire, creando, ad esempio, una fiscalità di vantaggio (proposta non certo all’ordine del giorno dell’attuale vertice politico del Paese), che serva da volano per tutto il meridione. La ricetta è molto semplice: chi investe in determinati territori deve godere di sgravi fiscali facili da ottenere, vale a dire incontrando minori ostacoli burocratici.

Per i giovani consiglio una buona formazione, che non si limiti all’istruzione canonica, tra scuola e università, ma che sia completata da esperienze lavorative precoci, alternando lavoro e studio, per raccogliere, fin da ragazzi, esperienze professionali.

 

I fondi che l’Unione Europea eroga non sono dunque sufficienti ad aiutare le imprese delle zone depresse a crescere?

 

 In questo campo, l’UE ha senz’altro operato positivamente ed è stata d’aiuto per molte aziende (le poche imprese nate in Sicilia negli ultimi anni ne hanno usufruito). Tuttavia, l’accesso ai contributi è stato reso eccessivamente oneroso. È necessario affidarsi a numerosi professionisti per redigere la domanda, il che, ovviamente, comporta un costo non trascurabile, di tempo e di denaro. Pur essendo d’aiuto, dunque, i fondi europei non sono sufficienti per colmare il distacco con i paesi del nord Europa.

 

Le grandi opere sono necessarie allo sviluppo economico? 

 

Non bisogna avere paura di investire. Bloccare ogni investimento significherebbe pronunciare una condanna a morte per questo Paese. Bisogna, al contrario, fare investimenti mirati, decidere su quali progetti puntare, e distinguere fra le opere che sono veramente necessarie e quelle che, invece, non lo sono.

 

Qual è, insomma, la differenza tra un imprenditore del nord e uno del sud?

 

Un imprenditore del nord può usufruire di maggiori servizi, come una rete di trasporti ben organizzata. Inoltre, può sfruttare l’economia di sistema. Viceversa, noi, al sud, pur godendo di qualche incentivo, partiamo con un gap ulteriore. Essendoci così poche aziende, poi, un ulteriore problema è la ricerca di personale qualificato: è molto complicato trovare figure professionali valide per svolgere funzioni dirigenziali. La maggior parte aziende sono di stampo familiare e perciò il management passa di generazione in generazione; ne consegue che difficilmente si formano dirigenti competenti. La politica che noi stiamo seguendo è quella di fare crescere le professionalità all’interno dell’azienda. Ma, come è ovvio, si tratta di una strategia che richiede tempo e fatica per essere attuata.

 

 

 

 

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