“STABILIZZAZIONE” DEL PRECEDENTE E PRINCIPIO DI LEGALITÀ: osservazioni sulle ricadute interne della Sentenza Contrada

A cura di Marina Albisinni

Con la collaborazione della Prof.ssa Francesca Minerva

Con il presente lavoro ci si pone l’intento di ripercorrere le varie tappe che hanno caratterizzato l’evoluzione giurisprudenziale della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa – istituto controverso, sfuggente, liquido – nonché di valutare l’incidenza di alcune pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo sui principi cardine del nostro ordinamento penale, in particolare sul principio di legalità (art. 25 Cost.). L’analisi si concentra sul caso Contrada, i cui effetti echeggiano tutt’oggi in diverse vicende giudiziarie. Il noto caso in questione ruota intorno alla figura di Bruno Contrada – che nel corso della sua carriera ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui: capo della squadra mobile di Palermo, numero tre del Sisde, agente segreto, dirigente di polizia. Il suo “tormentato” cammino giudiziario ebbe inizio nel 1992, quando per la prima volta, un pentito di nome Gaspare Mutolo, lo nominò dinanzi al giudice Borsellino; circostanza confermata nel corso del processo sulla c.d. trattativa Stato – Mafia e sulla Strage di via d’Amelio. Il 24 dicembre 1992 Bruno Contrada fu arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, di cui gli artt. 110 e 416 bis c.p., aggravati dai commi III e IV, avendo come funzionario di polizia e come dirigente dell’Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla mafia e del SISDE, contribuito a realizzare gli scopi di “Cosa Nostra”. Il processo ebbe inizio l’11 febbraio 1994, dinanzi alla V sezione del Tribunale di Palermo presieduta dal giudice Francesco Ingargiola. L’accusa mossa nei confronti di Bruno Contrada risultava quella di aver mantenuto stabilmente rapporti con esponenti del clan di “Cosa Nostra”, nonché aver agevolato le operazioni poste in essere dagli stessi, in virtù dello scambio di informazioni da lui trasmesse durante il periodo di permanenza presso gli uffici delle investigazioni della Questura di Palermo. Al termine della lunga trafila giudiziaria – con pronuncia della Corte di Cassazione – Bruno Contrada è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Spostando l’attenzione su ciò che è accaduto successivamente, ben note risultano le due pronunce della Corte Edu in merito alla travagliata vicenda Contrada. La prima, in data 11 febbraio 2014, con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, in relazione ai ripetuti rifiuti da parte dei giudici interni di accogliere le istanze presentate dalla difesa di Bruno Contrada per l’ammissione al regime di detenzione domiciliare, per gravi motivi di salute, ovvero di differimento dell’esecuzione della pena. La seconda volta, Corte Edu si è pronunciata con una sentenza considerata di portata eccezionale – definita “agrodolce”– sia per aver creato un nuovo capitolo nella vicenda giudiziaria di Bruno Contrada, sia per gli effetti conseguenti alla pronuncia sul diritto penale interno. Il 14 aprile 2015, i giudici di Strasburgo, dopo aver ripercorso l’intero iter processuale di Bruno Contrada, hanno rilevato che “È soltanto con la sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite il 5 ottobre 1994, che per la prima volta la Corte di Cassazione tenta di elaborare la materia in oggetto, passando in rassegna le sentenze che negavano e quelle che hanno riconosciuto il reato in causa e ammettendo esplicitamente l’esistenza del reato di concorso esterno associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno”. Attraverso tale pronuncia, i giudici di Strasburgo hanno analizzato la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, partendo dalla concezione per cui si tratterebbe di un reato di origine giurisprudenziale. In tale occasione Corte Edu, ha precisato che la questione sottoposta al suo vaglio è essenzialmente quella di verificare se all’epoca dei fatti commessi da Bruno Contrada, la legge applicata nei suoi confronti fosse sufficientemente chiara e determinata nel qualificare la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa. Pertanto, si proponeva di valutare se Contrada potesse in concreto prevedere le conseguenze della propria condotta dal punto di vista della rilevanza penale della stessa. Tenendo presente quanto affermato dalla Corte di Cassazione con riferimento ad ulteriori vicende giudiziarie – per fatti commessi successivamente alla condotta di Contrada – a parere dei giudici il reato contestato non sarebbe altro che il frutto di un’evoluzione giurisprudenziale iniziata negli anni ’80 e consolidatasi con la pronuncia delle Sezioni Unite Demitry del 1994. Per cui all’epoca dei fatti commessi da Bruno Contrada – nell’intervallo di tempo dal 1979 al 1988 – “Il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo”. Sicché a parere di Strasburgo, all’epoca della condotta, Contrada non avrebbe potuto prevedere con sufficiente chiarezza la fattispecie contestatagli e perciò appariva violato l’art. 7 CEDU. Valutando dunque l’incidenza di suddetta sentenza sulla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, risulta necessario inquadrare il concetto di prevedibilità su cui i giudici di Strasburgo puntano nella determinazione della condanna. Qualsiasi decisione può dunque considerarsi conforme all’art. 7 CEDU, se l’incriminazione sia tale da rendere prevedibile all’autore del reato le conseguenze giuridiche della sua condotta; motivo per cui in presenza di dubbi circa il carattere criminoso della propria condotta, la prevedibilità non risulta sussistente. Tale aspetto concernente la prevedibilità però non è risultato condivisibile da parte della dottrina. Difatti, seppure si ammettesse che nel periodo in cui sono state realizzate le condotte, la configurabilità della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa fosse realmente incerta, non si potrebbe non considerare l’assunto per cui il contrasto giurisprudenziale in merito aveva comunque un fondamento legislativo, quale appunto l’art. 110 c.p. – riferibile alle fattispecie associative fino dall’ 800. Quindi solo a partire dalla pronuncia Demitry del 1994 si può considerare cessato il contrasto giurisprudenziale sussistente intorno alla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa. Ulteriormente – a parere della dottrina – non appaiono mancanti argomenti a sostegno della possibile prevedibilità da parte di Contrada delle conseguenze della sua condotta; tenendo conto del ruolo da lui ricoperto nel corso della sua carriera, che avrebbe quindi dovuto far sorgere qualche dubbio circa la moralità ed etica del suo comportamento. Altresì vi è chi sostiene che la pronuncia Demitry, considerata “sentenza-pilota”, non rappresenterebbe un punto d’arrivo della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, in considerazione delle pronunce successive alla stessa che avrebbero esteso la portata della fattispecie, quali la pronuncia Carnevale (2002) e Mannino bis (2005). Prendendo in considerazione l’art. 7 CEDU – a parere dei giudici di Strasburgo, violato dall’Italia nel caso Contrada – ci si trova dinanzi al principio di legalità convenzionale – speculare al principio di legalità costituzionale – tra i cui corollari spicca la prevedibilità, strettamente connessa al concetto di accessibilità. A parere della Corte Edu, Bruno Contrada – al momento di realizzazione della condotta – non era in condizione di poter prevedere la responsabilità penale per il reato contestatogli; pertanto la mancata prevedibilità delle conseguenze della propria condotta – in base all’art. 7 CEDU – condurrebbe all’illegittimità della condotta inflittagli. Nella concezione europea il principio di prevedibilità si sdoppia, ricomprendendo l’assunto per cui il cittadino dev’essere in grado sia di prevedere che la sua condotta sarà considerata penalmente rilevante sia di prevedere quale sarà la pena inflittagli. Laddove né il dato normativo né l’interpretazione dello stesso dovesse consentire la previsione circa l’an e il quantum della responsabilità penale, l’imputato non potrà essere condannato per la condotta posta in essere – altrimenti si incorrerà nella violazione dell’art. 7 CEDU. A tal riguardo risulta opportuno un confronto tra il sistema di common law e quello di civil law. Nel primo l’interpretazione del giudice in relazione ad un determinato istituto – cosiddetta judge made law – finisce per costituire un precedente vincolante e quindi per “creare diritto”. Tale modalità di creazione del diritto può trovare riscontro solamente nei sistemi di common law, laddove vige il principio dello stare decisis e quindi il precedente costituisce un vincolo per il giudice al momento della decisione; non anche nei sistemi di civil law – come il nostro – dove il precedente giurisprudenziale non costituisce un vincolo bensì può essere utilizzato solo come ausilio argomentativo da parte dei giudici, liberi nell’interpretazione ed applicazione della legge al caso concreto. La tendenza quindi riscontrabile nella giurisprudenza della Corte Edu, consiste nell’equiparazione della fonte legale alla fonte giurisprudenziale; tutto ciò porterebbe ad ammettere l’estendibilità dei corollari propri del principio di legalità ad un reato frutto di creazione giurisprudenziale, che nel nostro ordinamento non risulta accettabile. Inoltre segnerebbe il declino del principio di Riserva di Legge, sancito dall’art. 25 comma 2 della Costituzione, in base al quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge”. Il nostro sistema dunque, profondamente “legocentrico”, mal si concilia con il concetto di prevedibilità asserito dalla Corte Edu essendo compito affidato esclusivamente ai giudici quello di interpretare ed applicare il diritto, senza cimentarsi nella creazione dello stesso. La portata “dirompente” della pronuncia dei giudici di Strasburgo sul caso Contrada, ha suscitato notevoli perplessità nella dottrina maggioritaria nonché altresì nella giurisprudenza interna che ha manifestato dei dubbi, riversatisi nelle pronunce post-Contrada, che hanno dato luogo ad esiti diversi. La vexata quaestio sul caso Contrada finalmente giunge al termine – il 6 luglio 2017 – con una pronuncia storica e allo stesso tempo coraggiosa: la Corte di Cassazione riconosce l’esistenza dell’obbligo in capo allo Stato Italiano di conformarsi alla decisione dei giudici di Strasburgo sull’affaire Contrada – in conformità a quanto previsto dall’art. 46 CEDU. Per tal ragione annulla la pronuncia di condanna nei confronti di Contrada, dichiarandola “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” in quanto il fatto non costituiva reato all’epoca della condotta, in conformità a quanto stabilito dai giudici di Strasburgo. Tra i vari strumenti valutati per il soddisfacimento dell’interesse del ricorrente – ossia l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla pronuncia di condanna dei giudici italiani – la Cassazione ha scelto l’incidente d’esecuzione. Nella motivazione della sentenza inoltre la Corte si sofferma sulle ragioni che conducono all’esclusione della revisione europea – introdotta con la sentenza della Corte Costituzionale n. 113/2011 – come strumento di tutela: difatti si ritiene che Strasburgo abbia dichiarato l’illegittimità della pronuncia di condanna, facendo essenzialmente leva sulla base legale della condanna, ragion per cui suddette contestazioni non appaiono superabili mediante una rinnovazione dell’attività processuale o probatoria. Tantomeno appare utilizzabile lo strumento della revoca, previsto dall’art. 673 c.p.p., esperibile nei casi di abolitio criminis o illegittimità costituzionale della norma incriminatrice relativa alla condanna; situazione non riscontrabile nel caso concreto. La pronuncia Contrada c. Italia ha altresì sollevato il coperchio di quel vaso di Pandora relativo ai c.d. “fratelli minori”. Con tale espressione ci si riferisce a coloro che si trovano nella medesima situazione sostanziale del ricorrente vincitore a Strasburgo – condannati per concorso esterno in associazione mafiosa – che a differenza di questo non hanno presentato ricorso alla Corte Edu. Emblematica in questo panorama appare la vicenda giudiziaria dell’ex On. Marcello Dell’Utri, anche lui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis c.p., per condotte realizzate prima del 1994. La difesa di Dell’Utri – sostenendo l’identità tra la situazione dell’assistito e quella di Bruno Contrada – inizialmente ha presentato alla Corte d’Appello di Palermo, in quanto giudice dell’esecuzione, istanza di revoca della sentenza di condanna pronunciata a carico dell’assistito per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte con ordinanza datata 18 novembre 2015, ha rigettato l’istanza dichiarandone l’inammissibilità. A parere della difesa, nonostante Strasburgo non abbia individuato un “difetto sistemico” nell’ordinamento interno, la pronuncia Contrada c. Italia dovrebbe considerarsi “sentenza-pilota”, quindi produttiva di effetti anche nei confronti di tutti coloro che si trovino nella medesima situazione sostanziale accertata con la sentenza europea. Ciononostante la Corte d’Appello di Palermo, pur riconoscendo l’identità temporale tra le due vicende prese in considerazione, nell’ordinanza d’inammissibilità sottolinea come la violazione riscontrata dai giudici di Strasburgo in realtà non riguardi un contrasto sistemico tra il diritto interno e la convenzione europea, bensì l’assunto per cui la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa – all’epoca della condotta realizzata da Bruno Contrada – non sarebbe risultata sufficientemente chiara e prevedibile. Altresì la Corte di Cassazione – dinanzi alla quale la difesa di Dell’Utri ha impugnato l’ordinanza di rigetto – ha rigettato il ricorso dichiarandone l’infondatezza. L’intenzione dei giudici di legittimità è stata quella di far apparire Bruno Contrada come “figlio unico”, mettendo in luce la diversità tra le situazioni dei due soggetti, anche allo scopo di evitare un effetto domino sulle ulteriori condanne per concorso esterno in associazione mafiosa, pronunciate con riferimento a condotte realizzatesi prima del 1994. Nella così definita “giungla amazzonica della giurisprudenza italiana”, meritevoli sono dunque gli sforzi compiuti dai giudici nazionali che hanno colto l’esigenza di sanzionare la fattispecie di concorso esterno altrimenti considerata penalmente irrilevante. Strasburgo con la pronuncia Contrada c. Italia ha lanciato “un grido” rivolto ai giudici interni, volto a stimolare la discussione sul principio di legalità costituzionale, da tempo sofferente. Dare attuazione alle pronunce della Corte Edu vuol dire compiere un gesto di apertura verso gli aspetti convenzionali del principio di legalità, assumendo quindi un atteggiamento “europeista”. In tal senso, nell’ultimo capitolo dell’elaborato si cerca di individuare le sfide future dinanzi alle quali si troverà il diritto penale, nell’ottica di un’armonizzazione tra i vari ordinamenti dell’Unione Europea, alla ricerca di un’Unione non solo e non più di interessi economici, ma anche di valori e di principi.

 

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