Se la Storia insegna qualcosa. Prepararsi all’avvento dell’Industria 4.0 evitando errori del passato: è possibile?

A cura di Filippo Marchetti

Questo breve pezzo è niente più che lo sviluppo di alcuni spunti di riflessione, sorti oggi, parlando con un amico, cui vorrei dedicarne il frutto, che è questa stesura. Ci si interrogava, discorrendo di politica, se la Storia sia effettivamente la magistra vitae che voleva Cicerone. Quanto è vero che alcune dinamiche si ripetono e che è possibile riconoscere uno schema comune?

Oggi si affacciano prospettive nuove, una rivoluzione niente meno, di cui forse in futuro si leggerà sui libri di storia, similmente all’avvento della macchina a vapore e la trasformazione della società che ne è seguita. Questo numero di IurisPrudentes è dedicato alla “industria 4.0”, che preannuncia processi di automazione del lavoro, i dati come bene economicamente apprezzabile, grandi colossi del web, intelligenza artificiale e così via. Assieme a queste novità sopraggiungeranno nuove o rinnovate sfide, per il giurista, il politico e il cittadino.

Ritengo che dallo studio di un periodo particolare e di transizione possano giungere interessanti spunti da tenere bene a mente. Il riferimento è all’Europa e l’America del XVIII secolo. Lì le fortissime spinte liberali, unite alle riflessioni con implicazioni politiche dei philosophes, e all’azione di una classe sociale – la borghesia – dinamica, ambiziosa e potente, hanno mutato il quadro storico in maniera drammatica. Possiamo oggi apprezzarne importantissimi frutti, quali Costituzioni che molto devono alle ideologie del tempo, scritti di inestimabile importanza e la genesi di molte libertà come le identifichiamo oggi. Ma occorre contestualizzare meglio.

In quegli anni matura il pensiero liberale (si pensi alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789): tale dottrina è specchio degli interessi di una borghesia stufa dei privilegi nobiliari e delle prerogative feudali dell’Ancien Régime. Si aspira al riconoscimento di una sfera intangibile di pertinenza esclusiva dell’individuo, del cittadino; lo Stato, tiranno ed incapace, lo si vuole lontano dalla vita economica attiva, che deve rimanere appannaggio dei borghesi; l’azione dello Stato è ritenuta da ridimensionare sotto ogni fronte (dal diritto penale, al campo economico, a quello giuridico, etico e religioso). 

Immancabilmente, si affacciarono nuove sfide: la frammentazione, dovuta all’idea che il cittadino dovesse liberamente contrattare il prezzo del proprio lavoro, antitetica peraltro al corporativismo residuato dal periodo comunale medievale, è vista da qualcuno come momento di debolezza contrattuale dei lavoratori, e non si fatica ad immaginare come ciò si ripercosse sulle condizioni di vita dei proletari

Oggi come allora la confusione fra libertà (liberalismo) e liberismo rischia di condurre a conseguenze nefaste. La dottrina economica del liberalismo ha contraddetto se stessa quando ha sostituito altri tiranni – senza volto preciso né paese – al Sovrano; ha negato le sue stesse premesse lasciando le paventate libertà e le pur nobili dichiarazioni di principio del 1789 mere clausole di forma (per i più).

Il quadro giuridico tratteggiato dalla nostra Costituzione è diverso. Il coniugio fra dottrina economica e sociale della Chiesa e la controparte altrettanto importante che questa, nella stesura della Carta, ha incontrato, ha tratteggiato una terza via fra socialismo e liberismo: una democrazia sociale, in cui i diritti di proprietà e di libera iniziativa economica hanno perso la loro sacralità e sono soggetti ad un bilanciamento al pari di altri diritti. Oltre Oceano, invece, la costituzione liberista di stampo lockiano ha tenuto, forse perché, come osservava Tocqueville, la classe media americana ha continuato ad espandersi (ma si veda a quale stress è stata sottoposta con la candidatura tanto di Trump, quanto di Sanders). 

Se si vuole rimanere in tema di paragoni storici, vi sono già Signorie rinascimentali, al di sopra delle istituzioni democratiche medievali, che svuotano di senso l’importanza di partecipare alla vita politica, che mediano con la democrazia, che annacquano il diritto. Come se il diritto potesse conoscere compromessi o zone franche. Emblematica la resistenza diffusa che si incontra nel tentare di regolamentare la rete o l’abolizione de facto operata da Youtube del diritto d’autore, di Facebook della privacy, da parte di molti colossi dell’hi-tech dei diritti dei consumatori e così via. Di più: l’affanno dello Stato di diritto rende necessario appoggiarsi ai novelli Signori, creando un circolo vizioso e giustificandone così la prepotenza. Si pensi, con imbarazzo, al Parlamento europeo in persona di Tajani che chiedeva garanzie a Facebook sulla tutela dei cittadini in seguito all’incidente di Cambridge Analytica.

Del resto, come l’evidenza dimostra, siamo ormai al cospetto di entità immense e potenzialmente capaci di influire sulla vita politica degli Stati in maniera che desta preoccupazione: si veda quanto la dialettica politica prende piede sui social network, e si soppesi la non felice prospettiva di una corsa alle presidenziali americane dello stesso Zuckerberg, voce insistente negli USA.

Candidatura del CEO di Facebook a parte, il liberismo inglese post-rivoluzione industriale si ripresenta sotto forma di privatizzazioni, flat tax, jobs-act, negazione dell’intervento dello Stato in economia, mito della supremazia e bontà dei privati e anarchia della rete. I Padri costituenti ci hanno fornito gli strumenti per governare gli eventi e superare le sfide che questi costituiscono. Ben venga l’industria 4.0, a patto di non accoglierla con le armi spuntate.

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