Il futuro è oggi da tempo, ma dobbiamo rendercene conto

a cura di Matteo Politano –

Quando si parla del futuro del lavoro, il 99% delle persone non ha la più pallida idea di quello che sta per succedere. I pochi che ne hanno, soggiornano in Silicon Valley, California, o in qualche altro hub tecnologico, e stanno sviluppando la tecnologia che rivoluzionerà il mondo. La cruda realtà è che, nel giro di soli 30 anni – non 300 -, continuando a questo ritmo, il mercato del lavoro sarà stravolto in maniera plateale. Non è questa la teoria di un qualche pazzoide online: basta informarsi sull’argomento il più possibile. L’autore forse più competente in materia, Yuval Noah Harari, storico israeliano a stretto contatto con la realtà tecnologica e al contempo estraneo al “core of technology” californiano, ha scritto negli ultimi anni diversi saggi sul tema. Il punto principale è che la tecnologia sta prepotentemente assumendo un ruolo centrale in tutto l’ambito lavorativo. Ben presto l’automazione prenderà il sopravvento. Ma questa è cosa, più o meno, nota a tutti.

Non tutti sanno, però, che questo processo sarà onnipervasivo ed irreversibile.

Moltissimi lavori per i quali maree di sbarbati (come noi) stanno studiando, non esisteranno più nel giro di 30 anni: saranno fatti da un algoritmo.

Ma non sarà un robot stile C-1P8, stile Star Wars; semplicemente, un algoritmo svolgerà quei lavori meglio di noi. E qui la domanda sorge spontanea: perché dovremmo cedere il controllo totale agli algoritmi? Per vari motivi: innanzitutto, perché ci converrà. Immaginiamo di avere accanto a noi qualcuno, o qualcosa, che è molto più bravo di noi; che ci conosce perfettamente perché ha tutte le informazioni che ci riguardano; talmente smart che si connette a tutti i dati del pianeta, in tempo reale; che ci consiglia al meglio su come guadagnare, su come vivere una vita sana, su come scegliere la donna della vita. E’, banalmente, più bravo di te a fare i tuoi interessi. Non diviene allora così difficile immaginare perché molti cederebbero il controllo.

Il secondo motivo per cui è inevitabile passare la palla agli algoritmi, è che qualcuno sta raccogliendo tutti i dati che ci riguardano. Come ci riesce? Semplice, glieli stiamo dando noi. Gratis. Nell’epoca attuale i colossi tecnologici stanno incamerando le informazioni personali di migliaia di utenti, in cambio di video di gattini, della possibilità di condividere con sconosciuti le tue foto da ubriaco o un tramonto poetico sulla spiaggia. Ovviamente, oltre a questo, ci sono un miliardo di vantaggi che riceviamo in cambio dei nostri dati, dai GPS ai pacchi Amazon, ma il dato di fatto è che stiamo consegnando interamente le nostre informazioni personali al mondo tech.

Terzo motivo è quello che Harari definisce “tecno-religioni”: è chiaro che, nel momento in cui siamo tutti connessi – o meglio, agganciati – i player del tech hanno un’enorme possibilità di convincimento e persuasione. Il concetto di tecno-religione è, in sintesi, il credo secondo il quale la tecnologica sarà inevitabilmente meravigliosa e vantaggiosa per tutti. Ed è questo un culto facile da diffondere: una installazione alla volta.

Chiaramente, l’altra faccia della medaglia è che saranno creati nuovi posti di lavoro, qualitativamente diversi da quelli attuali. Peniamo, ad esempio, all’ascensore: la sua invenzione ha creato un enorme business che ha portato fino ai grattacieli. Oppure, pensiamo agli aerei: prima dello sviluppo dell’aviazione, non esistevano le figure dell’hostess o del pilota. Il problema è che il periodo di transizione sarà lungo: e nel frattempo si dovranno formare, spesso daccapo, i vecchi lavoratori che svolgevano mansioni poi automatizzate.

Con tutta probabilità, quel che succederà, almeno nel breve periodo, è che ci saranno milioni di persone a spasso: si tratta di quella parte della popolazione che andrà ad ingrossare le fila di quella che Harari definisce “the useless class”. Un’élite molto ristretta, invece, definita “élite cognitiva”, avrà sotto il proprio controllo algoritmi migliori rispetto alla massa, e quindi concentrerà su di sé un enorme potere. Non è una discriminazione ideologica, è un dato di fatto: scherzando – ma non troppo -, al posto di avere una Lamborghini, il ricco di turno avrà il suo Lambo-ritmo, che rispetto al tuo algoritmo sfigato è avanti anni luce. Con certezza, saranno sostituiti per primi i lavori che prevedono ripetitività e compiti manuali di relativa facilità: il cameriere, il cassiere, il segretario, il concierge, il casellante – che sta già per essere sostituito.

L’aspetto più affascinante, però, è che l’accento si sposterà dal lavoro inteso come operosità, al lavoro come creatività, capacità di ragionare. Le macchine faranno i lavori ripetitivi e noi penseremo alle visioni strategiche: si parla, a tal proposito, di decisioni algoritmiche, “collaborative”, come quella che oggi avviene, ad esempio, con il GPS, il quale ci dice dove arrivare, ma noi decidiamo il come e in quanto tempo.

A volte, una automatizzazione efficiente può persino portare a risultati occupazionali positivi: una società produttrice di robot industriali giapponese ha riscontrato che, paradossalmente, la maggior efficienza raggiunta mediante il taglio dei costi della manodopera, ha portato in seguito ad assumere più persone, non a licenziarle.

Non esiste ricetta magica per il futuro, ma la cosa migliore da fare, oltre a migliorare la nostra competenza tecnologica, è farsi un piano che sia basato sull’unicità: essere il più possibile unici nelle cose che facciamo, per essere sostituiti il più tardi possibile. I “reinventatori” saranno quelli che si troveranno meglio. Dovendoci peraltro, fin da ora, fermare a riflettere su tematiche importanti, come l’etica della tecnologia, l’etica dell’intelligenza artificiale, il dibattito sull’Universal Basic Income, sulla privacy (vera), sul rapporto tecnologia e povertà e tecnologia e ambiente.

Quale sarà il nostro futuro lavorativo? Sarà davanti allo schermo del PC? Oppure arriveremo ad un punto in cui tutte le attività noiose e ripetitive saranno delegate a qualcun altro e potremo fermarci a riflettere su come risolvere problemi più alti? Forse, finalmente, alla chiusura di questo cerchio di rivoluzione tecnologica, riusciremo a capire cosa ci rende umani.

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