Di Carla Scalisi-
“Egli possedeva la sicurezza, un’aria naturale di comando che contraddistingue chi è destinato a diventare un capo” Sembra di leggere l’ennesima testata giornalistica dedicata a Emmanuel Macron, giovane leader della Quinta repubblica francese, ignorando di essere davanti, invece, ad un a citazione di Stephen Fry che, con queste parole, descrive Zeus. Non a caso, luoghi comuni andrebbero a identificare la forma di governo francese come una République Jupiterienne, quando, in realtà, la sua Costituzione, a dir di Mény, non prevede nemmeno il posto per Jupiter, non tanto per qualsivoglia divieto imperativo dettato dalle leggi ma, piuttosto, per la volubilità dell’opinione pubblica e per l’effettiva fragilità di un corpo sociale a debolissima caratterizzazione partitica. Continuando su questa sua convinzione, Mény, coniugando il suo sapere accademico ad un inconfondibile spessore culturale, segno di immensa vivacità storico-filosofica, ci propone un’analisi assai critica della quinta repubblica francese, non facendo altro che confermare la tesi per la quale, malgrado le spinte di parlamentarizzazione durante il post-guerra, la Francia non riesca a sottrarsi alla “morsa” del potere presidenziale. Implicitamente stilizzato come “Chef”, il Presidente francese viene, dunque, perçu come colui che vuole effettivamente darsi delle arie da dio.
E lo si immagina prontamente, come se fosse uscito da un quadro di Ingres, “Jupiter e Thétis”, 1811, troneggiare nell’Olimpo e da lì con fare altezzoso e minaccioso osservare i comuni mortali.
Visione alquanto romanzata e ben distante dalla realtà, anche se comunque, tecnicamente parlando, alquanto calzante come paragone, in quanto decisamente più addentro alla situazione statale e certamente molto più “presente” nella vita istituzionale del paese stesso.
Se, da un lato abbiamo questa visione alquanto regale e dall’essenza divina, di un Macron che mira minacciosamente al popolo, dall’altra, invece, opinione comune vuole che il giovanissimo presidente francese sia, invece, il vero latore del populismo all’Eliseo, a differenza della vieille génération che, invece, la vox populi la utilizzava come praetextum in fase elettiva.
Definendo tattico il populismo propugnato da Macron, Tarchi analizza in modo dettagliato le tecniche utilizzate dal giovanissimo allora candidato alla presidenza durante la propria campagna elettorale, ponendo in luce il momento in cui, facendo allusione a quanto contenuto in Révolution, suo “manifesto”, Macron si scagliava contro la classe politica e mediatica, sonnambuli, a suo dire, e dalla composizione ridondante. In un periodo così delicato come quello pre-elettivo, il populismo, per la Francia, è un atout, una carta vincente, un porto sicuro cui approdare, qualcosa di cui difficilmente si potrebbe fare a meno.
Dopo questo ampio excursus, al lettore spontanea sorge una domanda… Chi è veramente Macron? Cosa si aspetta la Francia da questo giovanissimo leader? E noi italiani? Di cosa siamo manchevoli rispetto ai cugini transalpini?
Innanzitutto, di una forma di governo che Duverger, nel 1958, definì “semipresidenziale”. La verticalità del potere. L’autoritarismo e la distruzione delle solidarietà orizzontali.
La storia francese ha una struttura del tutto anulare, in quanto, con l’avvento del semipresidenzialismo, si chiude un cerchio, si compie e si concretizza la teoria dei corsi e ricorsi storici profetizzata da Polibio. Dalla rivoluzione francese, dal desiderio del popolo di “affrancarsi”, dall’impellenza di sfuggire dalla morsa del sovrano, dalla reductio capitis, si giunge alla necessità di essere governati da uno chef qui en soit un.
Il semipresidenzialismo, non a caso, è caratterizzato da un amplissimo margine di ingerenza del Presidente nel regolare le dinamiche del paese, rispondendo in prima persona ai bisogni della nazione, dando maggiore voce in capitolo al popolo, un popolo che può autodeterminarsi scegliendo da chi farsi rappresentare. Secondo quanto emerge dalle tesi di Duverger, primo accademico a teorizzare il semipresidenzialismo ai suoi albori, nel 1958, tale autodeterminazione del popolo nella scelta del proprio leader conferisce a quest’ultimo la legittimazione a vedersi attribuiti determinati poteri e un margine d’ingerenza negli affari interni nettamente maggiore rispetto a quello degli altri stati, così come il rapporto fiduciario tra il governo e il Parlamento.
L’idea di “istituzione a misura di cittadino” ha spesso suscitato grande interesse in noi italiani. Nel corso della storia, molteplici sono state le proposte di un ipotetico esecutivo diarchico, o forma di governo a molteplici virtualità in Italia, senza però effettivo riscontro pratico. Lo si definisce, infatti, semipresidenzialismo silente, in quanto da più di 40 anni se ne parla senza mai effettivamente parlarne. Negli anni 90 si opinò persino di risolvere i problemi nazionali italiani à la française! È naturale chiedersi, a questo punto, quali sarebbero le conseguenze di un’ipotetica adozione di un sistema a forte caratterizzazione presidenziale in Italia. La Francia e l’Italia, forse par la loro contiguità geografica, culturale e storica, hanno da sempre avuto l’opportunità di godere del confronto; confronto di forme di governo, di politiche e leggi. Certamente un miglior dialogo tra le istituzioni e l’individuo renderebbero a misura d’uomo procedimenti burocratici talmente macchinosi da essere in tutto o in parte ignorati. Se si decidesse di esportare una forma di governo semipresidenziale in Italia, si andrebbero a attuare i principi della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, per cui il cittadino possa essere centro, il cuore e l’unica fonte di legittimità del potere. Bref, “We, the people”. Effettivamente facile a dirsi, ma in realtà alquanto difficile a realizzarsi, in quanto uno dei nei della nostra forma di governo è effettivamente la sua forte decentralizzazione. La nostra Italia, così come la Germania, risulta essere piuttosto carente in ambito di vicinanza cittadino-esecutivo, tendendo entrambi gli ordinamenti non solo a decentrare la propria amministrazione, ma anche a far perdere opportunità di dialogo proficue tra il cittadino e le istituzioni. Ad esser clementi, si potrebbe intravedere nel nostro sistema attuale il partito come lien di comunicazione tra il cittadino e lo Stato, senza però considerare che, qualora un cittadino decida di farsi rappresentare da un determinato partito, conferisce allo stesso una responsabilità non indifferente, ovvero quella di rappresentare i propri interessi, spesso deteriorati dal partito stesso. La scarsa caratterizzazione partitica francese voluta da De Gaulle, per la quale il partito non è altro che un “astioso gruppuscolo che cambia nome con la stessa frequenza con cui cambia la camicia”, non fa altro che rendere ancora più stretto il rapporto di rappresentanza intercorrente tra l’individuo che vota attivamente chi più ideologicamente a lui vicino e lo Stato che si impegna a rappresentare gli interessi di quest’ultimo. Lo scetticismo popolare porterà molti ad individuare nel movimento dei gilet gialli l’alterazione di questo strettissimo dialogo a pari livello tra il cittadino e le istituzioni. Tralasciando la loro maniera alquanto discutibile di dialogare con le istituzioni, da correggere certamente nel modo, ci dimostrano, però, che la Francia, per far valere i propri diritti, piuttosto di comportarsi come l’italiano medio, il quale si lascia andare a critiche da impotente spettatore, scende in piazza ed esige il dialogo con l’esecutivo. L’influenza popolare francese è molto più valorizzata. Forse perché “necessità fa virtù” e perché quella ormai lontana rivoluzione del 1789 ci ha insegnato che l’enclosure politica non fa altro che accrescere il sentimento di ribellione popolare.
Da qualche anno a questa parte, e più precisamente da quando Emmanuel Macron è stato eletto, la Francia si ritrova ad essere una nazione a forte caratterizzazione europeista, motivo per cui uno degli obiettivi primari dell’intera campagna presidenziale e dei provvedimenti presi durante questa prima parte del suo mandato hanno avuto come obiettivo primario il rafforzamento dell’ingerenza francese in seno all’Unione Europea.
Uno dei punti di fondamentale importanza su cui si è cercato di far luce è stato quello dell’implementazione del dialogo tra cittadino e istituzioni europee. Questa mancata interazione è probabilmente ravvisabile nella situazione complicata in cui la Francia venne a trovarsi a Bruxelles dopo la mancata ratifica della Costituzione Europea del 2004. Conseguenza fu una progressiva diminuzione dell’ingerenza dei cittadini nelle decisioni europee, relegando la maggior parte delle decisioni alla Classe dirigente, spola tra popolo e Bruxelles.
Non a caso, in occasione della “Grande Marche pour l’Europe”, ormai rendez-vous quotidiano annuale per En Marche, il Presidente e l’équipe presidenziale si pongono come obiettivo principale quello di “riorientare” la politica dell’unione europea, attraverso un’implicazione e un’ingerenza sempre più forte dei cittadini nella costruzione dell’avvenire europeo, in un clima transnazionale e costruttivo. I punti messi in luce nel programma “Grande Marche”, oltre a rispondere alla necessità che la suddetta sia accompagnata da una serie di riforme e di ambizioni politiche volontaristes, prevedono una trasformazione, un vero e proprio svecchiamento delle istituzioni europee, attraverso l’implementazione e la presa di coscienza dell’idea di un’Europa souveraine, unie et démocratique.
Un enjeu? Un défi? Non del tutto, soprattutto se si considera la forte pregnanza dei cittadini in questo progetto, la loro figura ricoprendo un effettivo ruolo chiave per la realizzazione di quanto affermato. Se per Mélenchon la mancanza di interesse dei cittadini per l’Europa risultava essere ravvisabile in un evidente disequilibrio tra interessi pubblici e privati (ponendo in essere l’esempio dell’Ecole Nationale Supérieure che, a suo dire, sforna giovani tecnocrati al servizio di privati), l’idea macronista è quella di risolvere il problema del gap concernente interessi pubblico-privatistici in una prospettiva nazionale (attraverso la recentissima proposta di abolizione dell’ENA, ad esempio) e, in prospettiva transnazionale, propulser un dibattito costruttivo, in cui tutti si sentano concernés et impliqués, in quanto cittadini europei.
Miraggio di libertà, garanzia di stabilità, culla della globalizzazione, nell’accezione più occidentalizzata del termine, l’Europa gioca un ruolo estremamente importante nello scacchiere geopolitico mondiale, in quanto patria dei diritti umani e colonna portante dello sviluppo economico internazionale, grazie all’implementazione del libero scambio, della libera circolazione e della cooperazione comunitaria.
E mai come ora l’idea di cooperazione comunitaria risulta essere più attuale. L’Europa si concretizza in uno dei periodi più bui della storia, si erge come Leviatano per rispondere al bisogno di sicurezza non di uno, ma di più popoli, così diversi ma inevitabilmente interdipendenti tra loro. E non sarà il nazionalismo, il protezionismo, la crisi o la Brexit a minarne la stabilità.
Quanto al rapporto intercorrente tra i Francesi e il proprio leader, questo è spesso definito di odi et amo. L’eccessiva ingerenza del patron a volte disturba, indigna, indispone. E, non a caso, si continua a criticare Macron senza ritegno, compiendo errori fallaci o del tutto futili che non concorrono alla sua effettiva valutazione.
È importante, inoltre, ricordare che, per una forma di governo come quella francese a forte caratterizzazione presidenziale, Macron sta portando avanti il suo compito in modo eccellente, in quanto sta riuscendo a coniugare i suoi leggiadri studi con un crudo sistema giuridico che poco spazio lascia all’immaginazione. È difficile trovare un presidente che, per parlare di nazionalismo in Europa, citi Hermann Broch, o che, in tutta disinvoltura, si rivolga ai francesi a suon di Leibniz e Ricoeur. Macron è certamente uno dei presidenti più edotti di sempre.
Bambino prodigio, dall’intelligenza poliedrica, giovane filosofo e politologo, alla scuola “La Providence”, durante gli anni del liceo, veniva soprannominato “le fou”. Ciò va a corroborare la tesi per la quale nella nostra società si tende ad aver un diffuso sentimento di spaesamento, di paura dell’altro, di rigetto verso il diverso, guardando con pregiudizio chiunque prorompa da sterili schemi standardizzati. Si tende a guardare ai fatti in modo del tutto superficiale, senza effettivamente andare ad analizzarne le cause, nella vita così come in politica. Motivo per cui il 14 maggio 2017, all’alba del suo mandato, Emmanuel Macron, veniva guardato con scetticismo da tutto il mondo.
In una République Jupiterienne senza olimpo e senza trono, Emmanuel non è Jupiter, non è un dieu, ma un semplice Prometeo che con tutto il suo fuoco della giovinezza, l’energia e la fugace sensazione di avere il mondo nelle proprie mani, vuol spesso strafare e spingersi oltre i limiti dell’ignoto. Solo che a volte l’ignoranza umana confonde l’ardore e lo zelo con la pertinacia e la vanagloria.