RESPONSUM DIRITTO ANTITRUST E ORDINI PROFESSIONALI: CONDOTTE RESTRITTIVE DEL CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO.

A cura del dott. Pierpaolo Moroni, con la collaborazione del prof. Gustavo Olivieri-

Un tema di particolare rilevanza per il diritto antitrust riguarda l’applicabilità delle norme a tutela della concorrenza e del mercato ai liberi professionisti. Il codice civile, all’art. 2082, definisce imprenditore “chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi”, mentre l’art 2238 esclude che all’esercizio della professione intellettuale si applichi lo statuto dell’imprenditore.

Tale esclusione è stata affermata esclusivamente per “una libera opzione del legislatore”, derivante dalla particolare considerazione sociale di tale attività.

Tuttavia, occorre mantenere un atteggiamento di estrema cautela nell’accostare la nozione antitrust di impresa con quella del codice civile. In assenza di una definizione precisa nei trattati, l’interpretazione della Corte di giustizia e la prassi decisionale della Commissione, includono nella nozione in parola “qualsiasi soggetto che eserciti un’attività economica a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento, ove l’attività, che consiste nell’offerta di beni e servizi, sia tale da poter ridurre la concorrenza sul mercato comune”.

Ciò che rileva è lo svolgimento di un’attività economica a prescindere dalla dimensione, dalla forma giuridica o dalla proprietà dell’impresa. Essendo quindi una nozione funzionale , in quanto si riferisce al tipo di attività svolta anziché alle caratteristiche dell’operatore che la esercita, è orientamento consolidato l’assunto secondo cui la natura individuale del soggetto non lo esonera dal rispetto delle norme sulla concorrenza.

Il fatto che l’attività sia intellettuale, richieda una autorizzazione e possa essere svolta senza la combinazione di elementi materiali, immateriali e umani, non è tale da escludere dalla sfera di applicazione del diritto della concorrenza, l’attività svolta dai professionisti; con la precisazione che “anche se le professioni liberali ricadano nell’ambito di applicazione del diritto antitrust, ciò non comporta per gli Stati membri l’obbligo di trattarle come imprese o attività commerciali per fini diversi da quelli concorrenziali”.

Tuttavia, difficilmente il comportamento del singolo professionista può portare ad un’infrazione del diritto comunitario della concorrenza, mentre ciò può più facilmente accadere per le decisioni degli organi di categoria dei professionisti, ossia degli ordini e dei collegi professionali, la cui appartenenza è spesso obbligatoria ai fini dell’accesso alla specifica attività.

Si rammenta, infatti, che ai sensi dell’art. 101 TFUE sono vietate, oltre agli accordi fra le imprese e le pratiche concordate, le decisioni di associazioni di imprese che possano restringere o falsare la concorrenza.

Il rilievo è da attribuirsi alla possibilità che gli organi di categoria hanno di emanare decisioni comuni, vincolanti per tutti gli appartenenti e finalizzate a limitare la concorrenza fra gli stessi.

Quel che rileva è il fatto che “l’attività degli ordini professionali, in quanto volta a regolare e orientare l’attività degli iscritti nell’offerta delle proprie prestazioni professionali, possa incidere sugli aspetti economici della medesima e possa avere effetti restrittivi per la libera concorrenza”.

Concentrando l’attenzione sulle figure giuridiche degli avvocati e dei notai è quindi, pacifico che, poiché prestano stabilmente, a titolo oneroso e in forma indipendente i propri servizi professionali, essi svolgono un’attività economica e possono essere qualificati come imprese ai sensi dei principi antitrust; contemporaneamente i loro ordini, in quanto enti rappresentativi di imprese si configurano come associazioni di imprese.

Più precisamente, il fatto che il notaio sia un pubblico ufficiale delegato dall’autorità dello Stato ad attribuire agli atti di cui è autore il carattere di autenticità, assicurandone la conservazione, l’efficacia probatoria e la forza esecutiva, non è sufficiente a far considerare la sua attività come forma di partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri.

A tal proposito occorre soffermare l’attenzione su un recente caso che ha visto protagonista il Consiglio Notarile di Milano (CNM) e ha avuto ad oggetto l’applicazione delle regole di concorrenza alla classe notarile.

In particolare, l’AGCM, nel 2017, ha avviato un’istruttoria sulla base della segnalazione di un notaio, in cui venivano denunciati alcuni comportamenti imputabili allo stesso CNM, volti a restringere in modo significativo la concorrenza tra i notai del distretto, attraverso la richiesta di dati economici sensibili sotto il profilo antitrust, il monitoraggio e la mappatura dei notai maggiormente produttivi e la fissazione di un limite all’attività lavorativa svolta dagli stessi.

La Comunicazione Risultanze Istruttorie ha chiarito come il CNM avesse tutto il diritto di esplicare il proprio potere/dovere di controllo sull’attività notarile e che le iniziative di vigilanza in sé non vengono sindacate dall’attività istruttoria.

Tuttavia, nel caso di specie, le suddette condotte hanno avuto come obiettivo quello di perseguire finalità diverse rispetto al semplice controllo e monitoraggio sulle attività dei notai.

Il CNM, infatti, ha agito quale organo di regolamentazione di una professione, il cui esercizio ha costituito una attività economica con l’obiettivo di “regolare e orientare l’attività degli iscritti, incidendo sugli aspetti economici della medesima”, integrando la fattispecie di decisione di associazione di imprese ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n.287/90 (Legge Antitrust).

C’è stata una rilevante modifica legislativa in corso di procedimento: si tratta dell’entrata in vigore della l.205/2017, legge di bilancio, che al comma 495 precisa di aver aggiunto un ulteriore comma all’art 93-ter della legge notarile, che, ad una prima lettura sembrerebbe esentare i notai dall’osservanza delle regole di concorrenza. Il comma 1-bis dell’art 93-ter riporta che “Agli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare si applica l’art. 8, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n.287”. Innanzitutto, è bene chiarire che l’esenzione dall’applicazione delle regole antitrust e dal potere di intervento sanzionatorio dell’AGCM concerne solo gli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare e non tutta l’attività dei notai nell’esercizio delle loro funzioni. Tuttavia, anche riguardo agli atti dei procedimenti disciplinari, l’esenzione dalle regole antitrust non è totale.

Permane, infatti, un potere di revisione dei provvedimenti disciplinari da parte del giudice nazionale fino a tre gradi di giudizio.

Inoltre, l’art. 8 comma 2 della legge antitrust italiana deve essere interpretato conformemente all’art 106, paragrafo 2 del TFUE, che prevede un’esenzione analoga ma solo nella misura in cui l’applicazione di tali regole ostruisca il perseguimento della specifica missione loro affidata. Dovrebbe essere compiuto quel test di proporzionalità e necessarietà secondo cui la misura adottata dall’impresa che esercita un servizio di interesse generale deve essere proporzionata rispetto all’obiettivo pubblico che si prefigge e tale proporzionalità andrebbe valutata sulla base della sua effettiva indispensabilità a raggiungere tale obiettivo, verificando che l’impresa non abbia alcuna possibilità di tenere una condotta diversa, altrettanto efficace allo scopo e meno restrittiva della concorrenza.

Si potrebbe affermare che la norma esenterebbe gli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare solo e soltanto nei casi in cui questa esenzione dalle norme di concorrenza sia strettamente necessaria per l’espletamento della missione prevista. Al contrario, qualora l’esercizio del potere disciplinare comporti una restrizione non giustificata, come accaduto nel caso specifico, allora le norme antitrust andrebbero comunque applicate.

A questo punto la soluzione, forse più scontata, che l’Autorità avrebbe potuto adottare, sarebbe stata quella di seguire la strada della disapplicazione della norma interna in contrasto con i principi euro unitari, dal momento che tutti i soggetti competenti a dare esecuzione alle leggi hanno l’obbligo di disapplicare una norma interna che possa ledere l’effetto utile delle norme comunitarie.

Al contrario, l’Autorità ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 93 ter comma 1-bis e dell’art. 8 comma 2.

In particolare, l’art. 1 legge Cost. 1/1948 e l’art. 23 legge n. 87/1953 richiedono che tale questione sia sollevata da parte di una autorità giurisdizionale nel corso di un giudizio.

Si rende necessario indagare la vera natura dell’Autorità preposta alla tutela della concorrenza e del mercato e del relativo procedimento antitrust.

C’è da rilevare, però, che l’impostazione che riconosce la natura para-giurisdizionale dell’Autorità lascia irrisolti alcuni problemi: relativamente alla qualificazione dell’organo alla luce della Costituzione, innanzitutto, è previsto un divieto esplicito alla creazione di giudici speciali all’art. 102; in merito alle modalità di esercizio dei poteri, l’Autorità, cumulando funzioni istruttorie e decisorie, rispecchia le amministrazioni tradizionali che sono chiamate ad assumere decisioni in esito ad un procedimento istruttorio, in ossequio al principio costituzionalmente garantito dell’imparzialità; quanto all’indipendenza, questa andrebbe considerata non in termini di separazione dell’ordinamento generale, bensì come esaltazione del carattere dell’imparzialità, che è uno dei valori giuridici fondamentali dell’attività amministrativa; in relazione ai poteri e alle funzioni, l’AGCM non è chiamata alla mera applicazione di una norma, ma, al contrario, la sua attività si sostanzia principalmente in una valutazione volta a qualificare i comportamenti in termini di liceità/illiceità, decidendo nel merito su determinate fattispecie; infine, con riferimento alla ripartizione di attribuzioni tra l’Autorità e il giudice civile, rileva la diversità di interessi che sono alla base dell’azione dei due organi: l’Autorità esercita una funzione di tipo amministrativo, curando un interesse pubblico specifico al mantenimento dell’equilibrio concorrenziale sul mercato attraverso un’azione volta a massimizzare la realizzazione dell’interesse tutelato; il giudice ordinario, invece, si trova in una posizione istituzionale di neutralità e indifferenza rispetto a tale interesse, mirando a ristorare situazioni giuridiche soggettive dei singoli.

Proprio sulla base di tali considerazioni, la Corte, nella sua decisione finale, ha vagliato l’esistenza dei presupposti di “giudice” e “giudizio” per sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Dopo aver chiarito che i due termini possono essere utilizzati in maniera generica per far si che il controllo di costituzionalità si esplichi nei momenti in cui non ci sarebbe altra via per sottoporre la norma ad una valutazione giurisdizionale, ha chiarito che “per aversi giudizio a quo, è sufficiente che sussista l’esercizio di funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge da parte di soggetti, pure estranei all’organizzazione della giurisdizione, ma posti in posizione super partes”. Per quanto rileva, nel caso di specie, la Corte ha considerato carente il requisito della terzietà in capo all’AGCM e ha negato, altresì, la possibilità di configurare l’Autorità come giudice ai limitati fini del controllo di costituzionalità, sottolineando come nel giudizio in questione non possa essere rilevata la presenza di zone franche in ordine alle quali non sarebbe possibile esercitare il controllo di legittimità.

Infatti, sia nella fase precedente l’avvio del procedimento, in particolare di fronte alla Corte d’Appello di Milano, sia nella fase successiva ad un’eventuale decisione, ossia nella fase eventuale di impugnazione della decisione dell’AGCM di fronte al giudice amministrativo, sono individuabili dei momenti idonei alla proposizione, in sede di giudizio, di un’istanza di rimessione alla Corte costituzionale.

Sulla base di tali valutazioni la Corte ha concluso per l’inammissibilità, per difetto di legittimazione del rimettente, delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 93-ter, comma 1-bis della legge n. 89 del 1913, e dell’art. 8 comma 2 della legge antitrust.

Sembrerebbe opportuno sostenere che l’AGCM abbia scartato l’eventualità di una diretta disapplicazione e abbia tentato di aprire un dialogo vero e proprio con la Corte Costituzionale; avrebbe cercato, cioè, che fosse chiarito una volta per tutte se, di fronte ad un intervento del legislatore volto a bloccare o a rendere più difficile l’azione dell’AGCM, quest’ultima dovesse agire in applicazione decentrata del diritto UE in materia di concorrenza, e dunque meramente disapplicando la norma di legge del nostro Stato in contrasto con esso, o vi fosse un “valore costituzionalmente protetto” per garantire una efficace applicazione del diritto della concorrenza nazionale. Ritenendo, eventualmente, ammissibile il promovimento della questione incidentale sollevata con l’ordinanza, si sarebbe ottenuta non solo l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale ma anche il riconoscimento dell’Autorità quale organo con poteri para-giurisdizionali.

Quale potrà essere la risoluzione definitiva della questione?

Potendo fare solo delle previsioni riguardo ai possibili scenari futuri, da un lato, l’Autorità potrebbe prendere atto dell’intervenuta legge, dall’altro, e questa potrebbe essere la soluzione più conforme al metro di valutazione utilizzato fino ad oggi da parte dell’AGCM, potrebbe disapplicare la norma lesiva della concorrenza e sanzionare il CNM per le relative condotte.

Qualora fosse questa la decisione finale, il CNM, probabilmente, farà ricorso al TAR del Lazio e sarà proprio in questa sede che l’AGCM, quale parte del giudizio, avrà la possibilità di sollevare la questione di costituzionalità.

Tuttavia, sarà poi l’autorità giurisdizionale, segnatamente il giudice del ricorso, che, qualora dovesse ritenere che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o che la questione sollevata non fosse manifestamente infondata, emetterà l’ordinanza con la quale disporrà l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e la sospensione del giudizio in corso.

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