Che l’Italia sia un Paese in stato di quiescenza, ormai non fa più notizia da anni. Non c’è dato che non lo certifichi, dalla natalità alla crescita economica. Tutto è fermo o arretra, irreversibilmente, raschiando il barile.
Eppure, tutto tace. Le discussioni, quelle di livello, sono tutte incentrate su altro: i diritti civili, quelli umani o l’ultimo selfie provocatorio di Salvini. Sono anni che la politica parla di immigrazione, tra chi è pro, chi è contro e chi “non è razzista ma”. E se non si parla di migranti, ci saranno i bambini di Bibbiano al posto delle Sardine o delle merende dell’ex ministro degli Interni e dell’ormai evergreen Greta Thunberg.
Per carità, tutto importante ed a volte, purtroppo, tragico. È normale che la società civile e la politica parli, si esprima e dica banalità a riguardo. È ovvio, è umano evitare discussioni difficili, aride come la nostra economia. Ma sarebbe utile comprendere e reagire a questa situazione negativa.
Guardando i dati affiora subito un dato, lo Stato è il dominus dell’economia, altro che colpa del neoliberismo come dice qualcuno (che in Italia non è mai esistito). Infatti, stando all’Ocse, in Italia sono dipendenti delle c.d. SOE, State owned enterprises circa cinquecentomila persone con una quotazione economica superiore a duecentosette miliardi di dollari, questo per quanto riguarda l’ingerenza diretta da parte del pubblico nell’economia.
Poi c’è il settore propriamente pubblico, dove la Pubblica Amministrazione conta 3,2 milioni di dipendenti, distribuiti nei suoi vari livelli e nelle sue miriadi di sfaccettature e inefficienze che come un buco nero fagocitano dal bilancio statale centosessantadue miliardi di euro, corrispondente a 2695 euro che ciascun cittadino italiano spende per finanziare il pubblico impiego.
Infine, c’è l’intervento diretto dello Stato nelle tasche dei cittadini, le “tasse”, nonostante lo Stato “si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità” e aumentano annuale.
Infatti il c.d. cuneo fiscale ammonta a più del 49% (secondo l’OCSE) e le Corporate tax al 27,9%, Iva esclusa.
Sostanzialmente, l’imprenditore ha l’onere di mantenere un socio occulto all’interno della propria impresa, perché il dato tiene conto solo della tassazione ufficiale e non effettiva, notevolmente superiore.
E poi ci sono la burocrazia e la giustizia, che meritano un discorso a sè per quanto rendono difficoltoso vivere in una già aspirante repubblica sovietica.
È stato calcolato che l’inefficienza della burocrazia e delle aule di tribunale (in particolare civili e amministrative) contano quaranta miliardi di euro, corrispondenti a 2,5 del PIL italiano.
Tra tempi lunghi, leggi che si contraddicono, continui ricorsi e una magistratura dalla misura cautelare facile, è semplice dire che la certezza del diritto non c’è o comunque è andata in ferie.
Basta questo, e forse anche meno, a scoraggiare qualsiasi imprenditore che voglia investire nel Paese. Così sta accadendo nella faccenda Ilva e così continuerà ad accadere, perché se lo “scudo penale” giuridicamente è un obbrobrio, pragmaticamente parlando è un’esigenza.
L’impresa non deve essere avvantaggiata o stimolata attraverso marchette di vario genere, ma non deve neanche essere messa in condizione di non poter operare nel mercato.
“Molti vedono l’impresa privata come una tigre feroce, da uccidere subito. Altre invece come una mucca da mungere. Pochissime la vedono com’è in realtà: robusto cavallo che, in silenzio, traina un pesante carro.” W.C.