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Di Elena Mandarà-

“Io resterò qui”. Questa è una delle ultime frasi che Luigi Di Maio ha pronunciato nel corso del suo discorso di dimissioni dal ruolo di segretario (scusate, capo politico) del M5S. Una frase che sembra presagire, come in molti hanno già detto, che si tratti soltanto di un allontanamento temporaneo, di un atto dovuto prima di riprendere in mano il partito (scusate, il movimento) in occasione del congresso (scusate, degli stati generali) in programma per fine marzo. Un discorso, pronunciato in occasione della presentazione dei responsabili del Movimento sul territorio (scusate, i facilitatori), intriso di recriminazione e amaro realismo, che voleva essere un elogio al Movimento ma, soprattutto, un attacco nei confronti di coloro che in questi anni l’hanno tradito e hanno contribuito ad indebolirlo e indurlo al collasso. Tentando di riassumerlo in una sola parola, però, si può semplicemente dire che sia stato un’enorme contraddizione.

Ripercorrendo la storia e l’evoluzione del Movimento, mettendone in luce i tratti distintivi, che avrebbero dovuto rappresentarne i punti di forza, il buon Luigi ha finito col dimostrare che il fallimento a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi non fosse altro che l’epilogo preannunciato di un esperimento che ha sempre avuto molto di emotivo e poco di politico. Se da un lato, infatti, ha ricordato con nostalgico entusiasmo la primissima esperienza parlamentare, durante la quale gli eletti non si conoscevano fra loro (e, in molti, non conoscevano né il Palazzo, né il compito che erano stati chiamati a svolgere), dall’altro si è scagliato fortemente verso chi, nel corso di questi anni, manifestando il proprio dissenso verso le scelte della maggioranza, ha alimentato l’immagine di un Movimento poco coeso. Ma non è forse proprio il contrasto, il rischio insito nel costruire un gruppo che trova il proprio elemento identificativo nella protesta? Non è forse la mancanza di coesione, la conseguenza del non basarsi su un’idea o un progetto comunque, quanto sulla mera protesta, sulla critica sterile e incondizionata? Se da un lato, con romantica ingenuità, ha ricordato la favola del bibitaro eletto come il più giovane vicepresidente della Camera, vantando con orgoglio di avere ricoperto una delle più alte cariche dello Stato pur essendo privo di alcuna esperienza, dall’altro ha tenuto a precisare che adesso è importante trasmettere la propria esperienza a chi si appresta a ricoprire ruoli di coordinamento all’interno del Movimento. Non sono più sufficienti, allora, la buona volontà, l’onestà, il sorriso sulle labbra? D’un tratto, la regola dell’uno vale uno, si è trasformata in quella dell’uno non vale l’altro. Da quando l’impreparazione, l’inadeguatezza e l’incapacità si sono rivelate essere le migliori armi di cui dispongono gli avversari politici per combatterli, è diventato importante sapere chi si ha di fronte, sfruttare chi è capace. Eppure, non era prevedibile che fosse impreparato, inadeguato ed incapace chi non ha alcuna formazione alle spalle? A conti fatti, la stessa storia del Movimento si è rivelata una contraddizione in termini, che lo ha portato a creare alleanze e governi con quei grumi di potere che voleva sciogliere. Nella folle corsa verso le proprie ambizioni, il Movimento ha perso la rotta e una buona fetta dell’elettorato e le dimissioni di Di Maio sono l’inevitabile presa di coscienza di un declino che sembra difficile da fermare, proprio perché frutto del DNA stesso del Movimento. Un declino ancora più esplicito all’esito degli ultimi risultati elettorali in Emilia-Romagna e in Calabria, dove il M5S è rimasto totalmente fuori dai giochi.

E’ rimasta coerente, però, la visione distorta della politica e delle istituzioni che da sempre caratterizza la filosofia grillina. Come già in altre occasioni, infatti, Di Maio ha invitato il Movimento ad andare avanti per fare ciò che è giusto. Il problema è che la politica non è religione e il programma di Governo non è la Bibbia. I concetti di giusto e sbagliato sono relativi, legati alla scala di valori e princìpi che ciascuno di noi segue, perché rispecchiano la propria cultura e formazione. Il compito della politica non è dettare legge su cosa sia giusto. La classe dirigente non è chiamata ad ergersi quale guida spirituale del popolo, ma a trovare soluzioni concrete, a proporre la propria idea di Paese e cercare di realizzarla raccogliendo il consenso dei cittadini. E non solo. È altrettanto grave dire che i modi non sono importanti. La forma è sostanza. E chiunque abbia contezza di cosa siano le Istituzioni, le Leggi, il Diritto, lo sa. Non può trovare spazio nella moderna concezione di Politica, la machiavellica idea che il fine giustifichi il mezzo. È un inno al qualunquismo, becero populismo di chi fino a qualche anno fa dichiarava di volere aprire i palazzi come scatolette di tonno e pensa di poter trovare nel nodo alla cravatta la legittimazione di uomo delle Istituzioni.

Toglila pure la cravatta, Luigi. L’eclissi delle 5 stelle sarà lunga.

 

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