Recovery Fund: oltre la demagogia

La notizia dei 750 miliardi di euro oggetto di approvazione del Recovery Fund è ormai al centro della scena mediatica da un paio di giorni. Il successo del Primo Ministro italiano Conte, in quel che sembrava un braccio di ferro tra i leader di Paesi con esigenze diverse, è stato sventolato come bandiera di vittoria da parte dei partiti al governo, mentre l’opposizione – ed i dissidenti pentastellati – si trovano adesso con pochi assi nella manica per vincere la partita dell’euroscetticismo. Politicamente parlando, il successo di un Primo Ministro che riesce in quattro giorni a negoziare (ed ottenere) 36 miliardi in più di quanto originariamente immaginato è innegabile. All’Italia spetteranno, infatti, ben 208,8 miliardi, di cui 81,4 miliardi di trasferimenti e 127,4 miliardi di prestiti, rendendo così il Belpaese il primo beneficiario, in termini assoluti, del piano Next Generation EU. Allo stesso modo in molti potranno opinare molti aspetti del piano, ad esempio, il fatto che più della metà degli aiuti siano composti da prestiti, che tali fondi possano essere sottoposti a condizionalità da parte della Commissione o che l’accordo siglato preveda differenze sostanziali in termini di restituzione del capitale prestato, con notevoli vantaggi nei confronti dei paesi cosiddetti “frugali”. Ciò che non è ben chiaro alla quasi totalità della classe politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è la prima lezione di economia “Nessun pasto è gratis” che contrasta con la prima lezione della politica “Qualsiasi pasto può essere gratis se lo fai credere all’elettorato”. Analizziamo nel dettaglio tali elementi per comprendere quanto ci sia di buono in questo piano. In primo luogo, è bene chiarire che con “frugali” si definiscono i Paesi nordeuropei e scandinavi facenti parte dell’Eurozona, il cui bilancio pubblico è, dunque, soggetto alle stesse regole vigenti per tutti gli stati membri dell’Unione. Indipendentemente, infatti, dall’adesione o meno dei singoli Stati alla moneta unica, tutti i membri dell’Unione Europea devono impegnarsi a rispettare (o quantomeno convergere verso) i famosi limiti del 3% Deficit/PIL e del 60% Debito/PIL. Sebbene i limiti quantitativi possano essere opinabili, la ratio di fondo di tale regola è quella di evitare che i Paesi membri possano soffrire shock asimmetrici rispetto al resto dell’Unione, legati proprio all’instabilità macroeconomica dovuta ad un eccessivo squilibrio dei conti pubblici. Nulla da eccepire dunque, nonostante l’UE sia composta da Paesi con economie ed esigenze diverse. Un’eccessiva esposizione debitoria in rapporto al proprio PIL, unita ad una persistente tendenza ad un alto indebitamento, è ormai (quasi) universalmente riconosciuta come causa principale di crisi simili a quelle sperimentate nel 2011. Basta un semplice calcolo aritmetico per scoprire che i Paesi “frugali” hanno un rapporto medio Debito/PIL del 51,7% contro una media del 116% del c.d. “Asse Franco-Tedesco” insieme ai paesi meridionali periferici (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), per una media europea nel 2018 dell’80,4%.  Parimenti, è giusto analizzare la qualità del debito pubblico. Per semplicità, analizzeremo i rating Standard & Poor’s dei titoli decennali dei vari Paesi. A guidare la classifica è, ovviamente, la Germania con la AAA, rating condiviso con Olanda, Danimarca e Svezia. La Francia detiene un’ottima AA, mentre Finlandia ed Austria possono vantare un ottimo AA+. Tra i Paesi “non frugali” la Spagna detiene una A, Italia e Portogallo una BBB, e la Grecia una BB- (fonte: Teleborsa). In pratica, mentre tutti i Paesi “frugali” detengono debito pubblico a massima sicurezza (o al limite di qualità più che buona), tra i Paesi meridionali dell’Unione il rating più alto è quello spagnolo, di qualità media, mentre gli altri mostrano qualità bassa, ad un passo dal Non-Investment Grade. Più basso è il rating maggiore sarà il premio per il rischio da pagare come interesse sui titoli di Stato che, come ormai risaputo, aumenta l’aggravio del debito per interessi passivi, generando un circolo vizioso che, senza apposite riforme, porta un Paese al default. Tutti coloro che invocano la generosità e la fratellanza europea, puntando il dito contro i primi ministri dei Paesi più virtuosi, dovrebbero chiedersi se approverebbero una condivisione del rischio con le Barbados (la differenza di rating è la medesima), o se sarebbero contenti di prestare denaro a fondo perduto ad un Paese che, invece di ripianare i conti pubblici, elargisce bonus e nazionalizza imprese. È ovvio che la volontà sia politica, ed è qui che la Germania e la Francia hanno puntato per evitare di ripetere gli errori compiuti dieci anni fa, ma criticare i Paesi del nord perché “troppo virtuosi” sembra davvero utopico, così come risulta scandaloso pretendere che si possano utilizzare soldi di bilancio comunitario per spendere a proprio piacimento, senza dar conto al creditore, un po’ come se si andasse in banca a chiedere un affidamento di conto e lo si volesse a fondo perduto e senza dover dar conto a nessuno circa le proprie capacità di solvibilità. Appurato che “in amicizia” non si ottengono miliardi negli accordi internazionali, analizziamo cosa c’è di buono e quali punti sono un po’ più a sfavore del nuovo strumento. Di certo la dotazione di capitale, in rapporto agli investimenti previsti per tale piano, risulta essere più che generosa considerando che, solo la quota italiana pesa per circa il 12% del reddito nazionale e che quasi la metà della dotazione patrimoniale sarà erogata a fondo perduto. Importante anche il meccanismo di vigilanza che vede la Commissione ed il Consiglio Europeo come organi di approvazione dei piani di investimento dei singoli Paesi, con possibilità per l’Olanda di porre il veto sui piani di Roma e Madrid, che potrebbe frenare gli ormai appurati istinti della politica di “venezuelizzazione” della Penisola, nella speranza che tali meccanismi non finiscano per rallentare il processo di erogazione dei fondi. D’altronde, le condizionalità del Recovery Fund non sono neppure illogiche, o quantomeno non lo sono per i Paesi che decidono di investire sul futuro piuttosto che sulle pensioni. Le richieste della Commissione sono di utilizzare i fondi per investimenti che stimolino la crescita del PIL e la creazione di posti di lavoro, valorizzando la transizione verso economie sempre più verdi e digitalizzate. Sono dunque in pole position le richieste per l’Italia da parte della Commissione di una ristrutturazione del sistema giudiziario, del sistema pensionistico, del sistema fiscale e della Pubblica Amministrazione, invertendo il percorso di riforme avviato con il Governo Giallo-Verde e confermato con il Governo Giallo-Rosso. Tra le criticità rientrano certamente le tempistiche di erogazione (tra il 2021-2022 ed il 2023), che renderebbero il Recovery Fund uno strumento utile più ad uno sviluppo comunitario che ad un sostegno immediato all’economia. A tal proposito il ricorso al MES, accusato di essere lo strumento del demonio per via delle – inesistenti – presunte condizionalità sbandierate da diverse fazioni politiche (molte delle quali oggi non nominano neanche le ben più restringenti condizionalità del Recovery Fund, limitandosi a idolatrare i risultati ottenuti),  potrebbe rivelarsi utile soprattutto per la celerità nel ricevere i fondi. L’altra faccia della medaglia è che, come a livello nazionale, anche a livello comunitario “non esiste alcun pasto gratis”, e l’adesione al Recovery Fund, chiaramente, presuppone l’inizio di una strada su cui preme procedere con molta cautela: quella della creazione di un bilancio unico europeo con entrate e spese comuni. La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, d’accordo a molti altri esponenti politici, non ha mai fatto mistero di voler intraprendere questa rotta, per cui è necessaria una ponderazione non indifferente. L’idea di ritrovarsi in pochi anni a cedere buona parte del potere tributario ad un organo sovranazionale da cui molti cittadini UE, ancora oggi, non si sentono rappresentati, può tradursi in futuri attriti non di poco conto, rischiando di determinare un’eccessiva centralizzazione del potere nelle mani di una capitale europea sempre più lontana dai bisogni della popolazione. Ancor peggio sarebbe veder realizzato il sogno di molti di trasformare l’Unione in un Cartello tributario, in cui i sistemi tributari uniformati ed il coordinamento delle autorità fiscali renderebbero impossibile la concorrenza fiscale tra i Paesi, parte integrante del processo di efficientamento dei bilanci dei singoli Stati (e molto più efficace di qualsiasi direttiva di Bruxelles). Questo scenario, fino a qualche anno fa di remota immaginazione, sembrerebbe avvicinarsi più che mai oggi, tanto che i primi tentativi riguarderebbero l’istituzione di una Plastic Tax comunitaria. L’opinione finale è, a mio avviso, che ostacolare questo processo sia inutile ed oltremodo dannoso. Servirebbe, più che altro, indirizzarlo verso orizzonti comuni che lascino ai cittadini ed agli Stati la libertà di modulare la propria fiscalità. I benefici della condivisione del rischio sono oltremodo oggettivi oggi più che mai, con tassi d’indebitamento comunitari irrisori, spread nazionali in calo e borse europee in rialzo dopo l’annuncio di martedì. Tocca a noi riuscire a trovare un equilibrio di una sana integrazione europea ed evitare gli errori storicamente compiuti in nome dei presunti principi di “giustizia sociale”, privilegiando piuttosto libertà e merito.

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