Bellum iustum e “guerra giusta” oggi

di Marco Romolo

in collaborazione con la prof. Floriana Cursi

Nell’arco della storia, antica e moderna, la guerra e le sue giustificazioni sono sempre state oggetto di dibattito. In ambito giuridico, la relazione tra guerra e diritto è complessa ed innegabile. Il diritto è sempre stato funzionale ai conflitti o per legittimarne l’inizio (ius ad bellum) o per regolarne la condotta (ius in bello).

A differenza del primo, quest’ultimo aspetto sarà preso in considerazione dai giuristi solo a partire dal XVII sec., per poi raggiungere l’apice nel positivismo giuridico ottocentesco secondo cui la forza è concepita come naturale attributo dello Stato-nazione, concetto espresso magistralmente nella famosa frase del generale prussiano Clausewitz: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi ”(1). L’interesse si spostò così dalle cause legittimanti alle regole dei conflitti, culminando nella nascita del diritto internazionale umanitario, avuta grazie alla conclusione delle Convenzioni di Ginevra. Quest’ultime pongono regole che, in tempo di conflitto armato, proteggono i civili e pongono limiti all’impiego di armamenti, mezzi e metodi di combattimento.

In quest’articolo interessa invece lo ius ad bellum e cioè la parte della giurisprudenza che regola principalmente l’inizio e la fine delle ostilità per una comunità. Per comprenderne il significato guarderemo ale sue origini, risalenti all’antica Roma. La traduzione letterale “guerra giusta” è tuttavia fuorviante se si vuol comprendere il significato reale che a queste parole veniva attribuito dai Romani.

L’aggettivo iustum che connotava il sostantivo bellum non aveva niente a che vedere con la sfera dell’etica. Come indica la stessa radice ius (diritto, legge, autorità) l’azione veniva considerata “giusta” perché in conformità al diritto e non invece perché volta al raggiungimento di un fine ultimo superiore. Seguendo questo schema, iustum non va inteso come “giusto” o “giustificato” ma bensì “legale”, ossia secondo ius, conforme al regime giuridico.

Ciò nonostante alcuni passi di Cicerone fanno riferimento alle iustae causae bellorum ed è proprio il termine causa che ha portato parte della dottrina a sostenere che vi fosse per i Romani una “teoria della guerra giusta”(2) . Tuttavia, sempre negli stessi scritti, il giurista sottolinea come la legittimità della guerra fosse sancita dallo ius fetiale, secondo il quale nessuna guerra sarebbe stata iusta se fosse stata condotta senza una causa.

Cic. de rep. 3.23.35: “Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta”.

Causa nel linguaggio dei giuristi romani aveva il significato di ‘fondamento giuridico dell’azione’, e il termine iusta causa andrebbe considerato come requisito dell’agire stabilito dall’ordinamento. Sempre seguendo questo schema le iustae cause bellorum sono dunque quelle previste dal diritto senza alcun contenuto metagiuridico.

La guerra rappresenta il momento di esercizio della violenza riconosciuta dall’ordinamento giuridico, in quanto promanante dall’autorità legittima. Il giusto, seguendo il pensiero di Bobbio, vedrebbe la sua ragion d’essere nel ‘legale’ (3).

Oggi, dopo le atrocità della Seconda guerra mondiale, la guerra è ripudiata sia a livello nazionale che internazionale, relegata a risposta eccezionale (extrema ratio) in caso di aggressione. L’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite statuisce appunto che:“Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite…”

Mentre la nostra Costituzione all’art. 11 dichiara:“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”

Bisogna però rilevare che le buone intenzioni, manifestate nella Carta ONU ed in varie carte costituzionali come quella italiana, non sono riuscite ad eliminare la guerra. L’umanità continua ad essere afflitta da scontri armati convenzionali, giustificati spesso con il raggiungimento di un fine ultimo altamente desiderabile che va ben oltre il dato giuridico. Si assiste ad una sorta di ritorno dello schema della “guerra giusta”, che sembrava ormai tramontato definitivamente e che invece risorge, ora come difesa dei diritti primari dell’uomo, come accadde contro il genocidio degli albanesi in Kosovo, dove l’intervento Nato andò oltre il principio di sovranità dello Stato serbo; ora come lotta contro il male, come accadde per le guerre “morally necessary” in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003. Nello specifico, in quest’ultimo caso, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 un folto gruppo di intellettuali statunitensi pubblicò un lungo documento per sostenere l’azione bellica intrapresa da J.W. Bush. Rifacendosi nella sostanza al concetto di “guerra giusta” essi sostennero che in alcuni casi “war is not only morally permitted but morally necessary” (4).

Questa retorica purtroppo non è nuova al mondo occidentale, in essa riecheggiano i vari discorsi e proclami del passato volti a giustificare la guerra con motivazioni metagiuridiche morali o religiose.

«Nel nome di Dio, diceva la lettera, vi imploro di portare tutti i soldati fedeli a Cristo […] Se verrete, riceverete il giusto guiderdone nell’alto dei cieli; se non verrete, ricadrà su di voi il castigo di Dio .»(5)

Con queste parole venne indetta la prima crociata, motivata da un fine “giusto” altamente desiderabile. La liberazione della terra santa infatti sembri rientri perfettamente nello schema ‘non solo moralmente permessa ma moralmente necessaria’ se vista con gli occhi di un fedele dell’epoca.

Di fatto, questa retorica che spinge la guerra come un imperativo morale volto al raggiungimento di un fine altamente desiderabile se analizzata a fondo risulta essere contraddittoria. Nel caso americano ad esempio tale teoria rischia di giustificare anche la controparte. La c.d. Jihad per l’appunto, professata dagli ideologi delle organizzazioni terroristiche islamiche quali Al-Qaeda, intesa come “azione militare religiosamente giustificata al fine di creare un ambiente universale islamico”(6) rientra perfettamente in tale schema.

Per questi motivi, l’utilizzo di concetti metagiuridici come la moralità non dovrebbero essere utilizzati per giustificare l’azione bellica, sia perché tendono a variare in base all’indicazione geografica, sia perché sono concetti ambigui, facilmente manipolabili da singoli Stati ambiziosi o lobby in cerca di potere.  Bisognerebbe far fronte comune ed implementare gli strumenti internazionali già a disposizione ponendo il valore della ‘legalità’ come unica ipotesi di ‘legittimità’ della guerra e astenersi per sempre dall’uso dell’espressione “guerra giusta”, poiché ciò che è giusto per noi non lo sarà mai per il nostro nemico.

Marco Romolo

1-R. Preston, S. Wise, Men in Arms – Una storia sociale della guerra, Bologna, 2015, p. 285.

2-A. Calore, Bellum Iustum tra etica e diritto, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Calore-Bellum-iustum-etica-diritto.htm (2006).

3-N. Bobbio, Studi per una teoria generale del diritto, Torino, 1970, pp. 79-93.

4-D. Blankenhorn, The islam/West Debate, 2005, p. 26.

5-Urbano II, Appello di Clermont, Concilio di Clermont, 1095.

6-G. Vercellin, Jihad. L’islam e la guerra, Firenze, 2001, p. 31.

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