Scrivere di Woody Allen è a tratti doloroso. È noto, infatti, che il regista newyorkese non abbia un bel rapporto con chi giudica le sue opere, sia che si tratti di critici, sia che si tratti di premiazioni. Le sue argomentazioni sull’inutilità di alcuni giudizi risultano inoltre convincenti e, di conseguenza, fare un articolo a riguardo provoca la continua sensazione di scrivere qualcosa di sbagliato e a tratti banale. Per comprendere il rapporto tra Woody Allen e la critica basta citare un aneddoto: siamo nel 1978 e si svolge la cinquantesima edizione degli oscar. Tutti sono in trepidante attesa dei vincitori perché il 1977 è stato un anno abbastanza prolifico per il cinema. A concorrere per la statuetta si trovano infatti Goodbye amore mio, Giulia, Due vite e una svolta, Guerre Stellari ed Io e Annie. È una notte fantastica, piena di sorprese e che si conclude con Woody Allen trionfatore assoluto. Il suo film si aggiudica ben quattro statuette: miglior sceneggiatura originale, miglior attrice protagonista a Diane Keaton, miglior regia e soprattutto il miglior film. Vi aspetterete un momento di trionfo assoluto, magari con un discorso da pelle d’oca davanti la platea dell’Academy, invece non andò così, perché quella sera Woody Allen non si presentò neanche alle premiazioni. Così, mentre il suo capolavoro riceveva l’elogio sul palcoscenico internazionale, lui stava suonando in un locale e solo l’indomani mattina lesse del trionfo. Anche in quel momento, tuttavia, il regista newyorkese dimostrò totale disinvoltura e, come racconta nella sua autobiografia, lesse il giornale e tornò a scrivere il suo film successivo.
Che gli piaccia o no, comunque la carriera di Woody da quel momento avrà una svolta, perché grazie al successo di Io e Annie potrà avere carta bianca sulle sue sceneggiature: i produttori si fidano di lui. Da quel momento inizia una delle produzioni più prolifiche della storia del cinema e anche un rapporto intenso con il suo pubblico, che dura ancora oggi. Partiamo però dall’inizio: perché raccontare questo siparietto? Per due motivi: innanzitutto ho appena finito di leggere la nuova biografia di Allen e mi sembrava simpatico condividere questo aneddoto, ma, soprattutto, perché da quell’assenza alla cerimonia degli Oscar si possono comprendere tante cose su di lui. Questo evento testimonia la natura non convenzionale del regista, che ha permesso la produzione di opere uniche nella loro normalità. Vista l’aura di genio che lo circonda, molto spesso chi non si è mai approcciato ai suoi film è portato a farsi un’idea “noiosa” di questo artista. Invece, sotto molti aspetti è il regista più popolare che ci sia, capace di arrivare al cuore di un vasto pubblico attraverso delle storie semplici, ma mai banali. L’idea di scrivere un articolo su di lui mi è venuta qualche giorno fa, quando insieme ai miei coinquilini ho guardato il suo ultimo film (Un giorno di pioggia a New York), su cui avevo sentito opinioni contrastanti. Tranquilli, non sono qui per spoilerarvi il film. Basta sapere che la trama non si discosta dal solito Woody Allen. Finito il film ho cominciato ad analizzare le emozioni che mi aveva trasmesso e la maggior parte, come sempre, erano positive. Non fraintendetemi, quando parlo di positività non intendo che il giudizio sull’opera fosse positivo (gradisco tutti i suoi lavori). Mi riferisco al mio umore, che era alle stelle. Mi sono allora posto una domanda che in tutti questi anni che seguo il cinema non mi ero mai posto: com’è possibile che un pessimista cronico e pieno di ansie riesca a trasmettere emozioni positive?
Eppure, basta porre l’attenzione su qualche dialogo nelle sue pellicole per comprendere che anche i suoi personaggi non si discostano dalle sue idee esistenziali. Ho allora compreso che l’arte di Woody Allen vuole ricercare il bello in un mondo che spesso sembra privo di senso. Tutte le storie che racconta, infatti, si svolgono in un contorno di romanticismo che non ha eguali. Allora si crea un paradosso, ovvero quello della precarietà dell’amore umano in un mondo carico di amore permanente. Basti pensare alle trame di Vicky Cristina Barcelona e Midnight in Paris, in cui l’atmosfera cittadina riesce quasi a sopperire il dramma amoroso. Non soltanto le città che mette in scena sono cariche di significato e, quindi, dimostrazione di forza della comunicazione umana, ma diventano anche la chiave per chiudere con un lieto fine la vicenda, quasi a testimoniare una ciclicità animata dall’etica e dalla cultura. I film di Woody Allen sono inoltre personali e trasmettono sempre i suoi valori.
Così assistiamo a delle storie guidate a ritmo della sua più grande passione: il jazz, a cui viene affidato il compito di creare l’ambiente, quasi fosse l’ancora di una salvezza ricercata in modo costante dal regista newyorkese. I film sono frutto della sua stessa esigenza di creare lungometraggi: ne avete abbastanza di un film all’anno? Poco importa, perché per lui dirigere non vuol dire fare il proprio lavoro, né esprimere la propria arte, ma intraprendere un percorso terapeutico di redenzione. Seguire questo artista apre quindi le porte a una serie infinita di riflessioni che a volte si distaccano dal senso dei suoi lavori, perché frutto di un bisogno incontrollabile di esprimersi a 360°, andando inevitabilmente a pescare i pesci dall’oceano del subconscio. Woody Allen non controlla la sua produzione e, probabilmente, quando ogni tanto la rivede, non smette mai di imparare. Potremmo, in conclusione, quasi parlare di un pozzo di sapere senza fondo, che, però, costituisce un vero e proprio unicum artistico. Quell’uomo di quarantatré anni che nel 1978 disertò la cerimonia degli oscar è quindi ben lontano dal personaggio cinico che molti descrivono e, forse, è anche la testimonianza di quanto l’opera viva indipendentemente dall’artista che l’ha creata.