C’era una volta a … Hollywood

Il 18 settembre 2019 è uscito nelle sale italiane C’era una volta a Hollywood. Tutti sono in trepidante attesa del nuovo film di Quentin Tarantino, il quale attraverso una campagna pubblicitaria degna di nota, è riuscito a catturare la curiosità del pubblico. Per due anni, infatti, fan e non del regista americano, sono stati bombardati di informazioni riguardanti un cast fantasmagorico con pochi precedenti. Così nelle nostre bacheche Facebook e Instagram sono cominciate a trapelare informazioni riguardanti la presenza nel film di star come Leonardo DiCaprio, Margot Robbie, Brad Pitt, Kurt Russel e addirittura Al Pacino: sembra l’inizio di qualcosa di epocale, di un’opera destinata davvero a segnare la cultura cinematografica della nostra epoca. Eppure, già dal primo giorno non mancano delusione e critiche per un film che, diciamocelo chiaramente, si è rivelato differente rispetto alle aspettative. Negli anni, infatti, Tarantino ha abituato il suo pubblico a un certo tipo di cinema, dando vita a realtà che spaziano dai toni splatter a quelli farseschi. Quando invece un anno e mezzo fa, siamo andati in sala a vedere C’era una volta a… Hollywood, ci siamo ritrovati davanti una storia che in parte rinnegava quel modus operandi, e che è andata ad affrontare i temi trattati con uno stile più “pacato”. Nei giorni successivi si è  alimentata una diatriba infuocata, tra persone che definivano il nono film di Tarantino un capolavoro e altri che addirittura lo ritenevano un flop clamoroso. Devo ammettere che anche io, all’uscita dalla sala, rimasi un po’ perplesso. Potremmo quasi dire che il mio cervello era combattuto tra la delusione totale e un autoconvincimento che definirebbe capolavoro anche una tazzina, se fosse firmata Quentin Tarantino. Ho allora lasciato passare qualche giorno, fermo nella mia convinzione che ci voglia tempo per metabolizzare un’opera cinematografica, specialmente se la si è vista in sala. A distanza di una settimana incomincio a fare ordine nella mia testa e dopo dieci giorni tutto ciò che mi rimase di C’era una volta a… Hollywood era un interrogativo: dove voleva arrivare Quentin Tarantino? Cieco allora della mia passione per il cinema e vittima di quell’autoconvincimento che mi impediva di ammettere che un film del genere potesse non piacermi, sono tornato al cinema una seconda volta per rivederlo. Con grande sorpresa, la seconda visione mi illuminò la mente: avevo compreso Tarantino. Questo articolo è quindi destinato ai lettori che non hanno apprezzato il film e ha l’obiettivo di illustrare i motivi che mi hanno portato a rivalutare questa pellicola straordinaria. Partiamo però dall’inizio, ovvero dal titolo del film: Once upon a time in… Hollywood. Leggetelo ad alta voce più volte e prestate attenzione ai puntini di sospensione. Noterete subito che lo stesso titolo dipende da questi tre punti, senza i quali si perdono magia e significato. La sensazione, infatti, che si ha leggendo il nome del film è quella dell’inizio di una fiaba, della creazione di un mondo immaginario, ed è collegata all’obiettivo principale della pellicola: fotografare il mito di Hollywood. Non si poteva in effetti scegliere un periodo migliore del 1969, un anno duro per LA, ma anche una fase di transizione tra due tipi di cinema differenti: quello che vede registi come Frank Capra e Billy Wilder da una parte, Martin Scorsese e Francis Ford Coppola dall’altra. La rivoluzione cinematografica sta prendendo piede, si stanno sviluppando nuovi valori e visto l’impatto che la settima arte ha sulle persone, potremmo quasi dire che sta cambiando il mondo: Tarantino vuole catturare il secondo prima del Big Bang. In questo contesto si sviluppa la storia (se così vogliamo chiamarla) di Rick Dalton e Cliff Both, i quali vivono una giornata in balia di un pendolo immaginario che oscilla tra il passato e il futuro, tra un’etica troppo antiquata e un’altra troppo idealista: uno stallo culturale, un mondo che vuole liberare le macerie per aprire le porte del cambiamento. Non c’è così più spazio per attori come Rick Dalton, ancorati a una cultura che non permette riti di passaggio: il nostro protagonista è una maceria destinata a scomparire. Sembrano invece trovarsi a proprio agio in questa realtà Sharon Tate, una giovane attrice di talento in ascesa e Roman Polanski, regista che qualche mese prima aveva fatto conoscere al mondo intero un film destinato a cambiare la storia del cinema: Rosemary’s baby. Assistiamo quindi a due mondi destinati a scontrarsi, da una parte quello di Rick Dalton e Cliff Both, dall’altra quello di Roman Polanski e Sharon Tate. Non è inoltre un caso che i due poli siano anche diversi nella loro materialità, uno fittizio e l’altro reale. Tarantino, infatti, immagina un contrasto con l’arte stessa, la quale si fa paladina di valori destinati a trascendere la fantasia, destinati a cambiare davvero le cose. In migliaia di articoli su C’era una volta a… Hollywood, abbiamo più volte letto che la scelta di salvare i personaggi dall’eccidio di Cielo Drive fosse la rappresentazione di quanto l’arte possa cambiare il corso degli eventi. Ritengo, tuttavia, che esista un ulteriore messaggio da parte del regista, ovvero quello di valorizzare il passato: è vero che Dalton appartiene a un cinema destinato a scomparire, ma proprio la sua decisività nel fallimento della strage rappresenta un ringraziamento a un mondo che non c’è più, perché è la storia a donarci gli strumenti per evitare ciò che è accaduto. Pasolini diceva che gli italiani sono un popolo senza memoria e questo mi porta a pensare che il film ci appartenga quanto gli americani. È vero che la retorica verghiana ci porta a credere che opporsi al cambiamento sia roba da sciocchi, ma è anche vero che fare tabula rasa di ciò che è accaduto può portare a conseguenze disastrose. Cos’è però il passato per Tarantino? Conosciamo bene le sue convinzioni sull’arte come metafora della realtà, però non possiamo fare a meno di domandarci a chi sia destinato l’omaggio del Tarantino regista. Badate bene, perché la parola regista non è lasciata al caso e intendo differenziarla, in questo contesto, dall’artista. Se dovessimo infatti ragionare nei parametri del Tarantino artista arriveremmo alla stessa conclusione poc’anzi citata e a una concezione generica di passato, a servizio totale del tema da affrontare. Ciò che invece interessa a me è capire cosa abbia pensato il Tarantino regista nella creazione dei suoi film, ovvero qual è quel cinema passato che alimenta il (suo)cinema presente. Diciamo che la risposta non è semplice, perché nel corso dei suoi nove film di citazioni e omaggi ne abbiamo a bizzeffe. In base però alle sue interviste e al personaggio di Rick Dalton, mi sono fatto una personalissima idea. “Preferirei riuscire a girare Il Buono, Il Brutto e Il Cattivo piuttosto che riuscire a scrivere Moby Dick durante il giorno e dipingere la Cappella Sistina durante la notte”, afferma il regista in un’intervista con Marco D’amore, e sicuramente non sono parole buttate al caso. Non è un caso nemmeno la fuga di Dalton a Roma per cercare la salvezza lavorativa tra “spaghetti western” e polizieschi, generi bistrattati all’epoca dalla critica americana, ma che con il tempo hanno ricevuto i giusti omaggi. Abbiamo quindi ragione di credere che il “tentato” eccidio di Cielo Drive sia anche un omaggio che Tarantino fa al cinema italiano di Leone e Corbucci, capace da una parte di salvare Dalton, dall’altra di essere un pozzo senza fondo di ispirazione per lo stesso regista. Possiamo, in conclusione, affermare che la pellicola meno tarantiniana della sua produzione è probabilmente anche la più sentita e la più intima. C’era una volta a… Hollywood suona alle orecchie come un grande grazie e come un invito a risanare quel buon gusto cinematografico che si sta perdendo: il cinema non rappresenta soltanto un modo di esprimersi, ma anche l’arte più diretta che ci sia, capace di cambiare la coscienza del popolo e forse anche il mondo che ci circonda.

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