Beati i beati della Casa

Io scrivo storie. Qui per lo più le si raccontano.

Mi sembra un assunto mediocremente esatto ed empiricamente dimostrabile, da cui deduci, lettore: questo posto non fa per me. In effetti è acutamente vero, fintanto che io non ti esorti – lo sto facendo – a definire “posto”. 

Avverto titubanza, grigi sospiri, braci di nervosismo. Nulla di cui aver paura; la mia autoreferenzialità sa farsi architetto anche per quella degli altri.

Il “posto”, che è questo qui, adesso, in cui mi senti parlare con una cadenza febbrile – è l’agitazione del debutto – risulta un’equazione di tempo e spazio che impiego in un dato tempo e un dato spazio – precisamente, le note del mio cellulare – diverso dal tuo che sei invece su questo giornale virtuale – che incredibile avventura lo spazio che non ricopre la materia – , traslato in avanti di parecchie ore. Da qui, i posti diversi che ricopriamo tu ed io, confinanti, certo, ma dunque distinti tra loro. Esosa come descrizione, ma sufficientemente incomprensibile da indurti a pensare che il ramoso disegno che sto progettando sa adeguarsi al tuo “posto” tanto quanto al mio, o quantomeno sa provarci.

Con questa mia presentazione chiarificatrice – si fa per dire – smetto di abusare della tua mente e potremmo, con il tuo benestare, sia chiaro, novellare la mia introduzione così: io scrivo di chi scrive storie.

Susanna Clarke, che torna a scrivere dopo sedici anni, sceglie un ritorno pirotecnico: Piranesi, un fantasy che ti avviluppa in acque terse che bevi fino a quando non ti accorgi che sono salate. Non so se i sedici anni siano stati impiegati tutti per costruire questa storia labirintica che è molto meno banale di un labirinto, ma sa percuoterti così bene che l’unico vero dolore di questo racconto è la sua fine (di sicuro partorito in molto meno di sedici anni).

La narrazione scorre in una realtà in cui l’unico Mondo (per ora) conosciuto è la Casa, un palazzo con uno sterminato susseguirsi di stanze (circa settemilaseicentosettantotto), un alternarsi di corridoi e vestiboli babelici, che brulicano di statue di marmo lungo i loro perimetri, e che si sviluppano in orizzontale e in verticale, su piani accessibili da scale in rovina. Alcune di queste stanze, ai piani inferiori, fanno da fondale al mare, che si scatena talvolta in maree che possono interessare ampie zone della Casa.

Un posto che potresti visitare in qualche incubo, se sei particolarmente bravo a sognare.

La Casa (le lettere maiuscole non sono mai un caso) è abitata da due soli individui, Piranesi, il suo protagonista e voce narrante, e l’Altro, uno studioso il cui talento è di sicuro la poca affabilità, che incontriamo il martedì e il venerdì e con cui ci si scambia informazioni sulla Casa e sulla ricerca di una fantomatica Conoscenza.

Descrivere Piranesi, la persona e il libro, è un compito insidioso poiché spesso anch’io ho perso la rotta.

Egli trae il suo nome dall’architetto e incisore veneziano Giovanni Battista Piranesi, vissuto nel XVIII secolo.

Giovanni Battista Piranesi 
Carceri (Tavola VII, 1745) 

È un uomo la cui sacralità si ravvisa immediatamente in ogni suo pensiero, e la perfetta logicità della grande parte delle sue idee convive così bene con questo aspetto metafisico che è impossibile non diventarne fieramente sudditi nel corso della lettura, e accettare con stupore la purezza della sua assennata solitudine come il più grande dei doni. È una conoscenza che accresciamo grazie ai suoi taccuini, diari numerati (apparentemente) cronologicamente, vere e proprie enciclopedie con cui ci racconta di sé e della Casa. L’omonimia con l’architetto realmente esistito si presenta chiara proprio nell’aspetto di quest’ultima: è infatti un’informazione che mi è sembrata molto utile per trovare una geografia in questa grandiosa utopia, divina come l’antichità romana, sublimata da spazi drammaticamente infiniti, e sontuosa nella sua paranoica desolazione.

Giovanni Battista Piranesi: svincolo stradale vecchia Appia Antica e via Ardeatina (dal ciclo degli antichi monumenti di Roma, 1756). Acquaforte, (National Gallery Prague)

Piranesi e la casa sono l’uno l’anima dell’altra, e questa comunione si esprime attraverso l’inviolabilità dei rapporti fraterni che egli instaura con gli uccelli e i pesci che la abitano, persino con i plinti, le porte, i pavimenti, le mura, nonché con gli scheletri di antenati forse non troppo lontani, che lui non ha mai conosciuto in vita ma che ci suggeriscono che un passato esiste in quell’imperituro presente. Più di tutto, tuttavia, io ho amato le statue che la adornano quasi quanto le ha amate lui, poiché cristallizzano intimamente momenti così umani e ordinari che a tratti ho potuto immaginarne la corposità intesa come corpo e sangue e fluidi che si destano dal sonno della pietra. C’è l’elefante che sorregge un castello, i due re che giocano a scacchi, una donna che regge un alveare: ognuno di essi ostinatamente fermo ostinatamente muto. Cosa volete dirmi, mi chiedevo mentre Piranesi le benediceva, qual è il sigillo che celate con la vostra presenza?

È un panteismo scevro da qualsiasi forma di bigottismo, gentile, che riempie ogni cosa di una gratitudine spontanea, autentica, semplicissima. Dio è in ogni cosa. Ogni cosa è la Casa. Dio è la Casa: una religione che baratterei volentieri con quelle esistenti.

“La Bellezza della Casa è incommensurabile; la sua Gentilezza, infinita.”

La vita lì scorre così, in un moto costante e prevedibile che scandisce i giorni esattamente allo stesso modo. Ma da quanto lo fa?

Quella di Piranesi è un’intelligenza pacifica in un Mondo Pacifico che tuttavia appare sinistro ben presto, e la cui mancanza di confini e certezze finisce per stordire.

D’un tratto quel placido acquario sembra voler rispondere alle nostre domande, ma tutte insieme, e tutto d’un fiato.

Il rapporto con l’Altro si incrina, altri esseri umani forse esistono?, e se esistono, sono delle minacce?, i taccuini di Piranesi confondono il tempo e gli accadimenti per via di una sua amnesia, dettata da cosa?, dalla Casa bisogna – si può – fuggire o dobbiamo proteggerla?, fino a quando tutta la magia non si arrende a quello che è vero per Piranesi e quello che lo è per qualcun altro, a volte lui stesso.

Scopriamo che l’intelligenza sa diventare delirio e perversione, che la conoscenza non ha uno statuto fatto di leggi incrollabili che hanno molto poco a che fare con la moralità, e che il male esiste anche quando non sappiamo cosa sia.

“Forse anche le persone che ti piacciono e ammiri immensamente possono farti vedere il Mondo in modi che preferiresti non vedere.”

Giunti alla fine, ansimanti e alienati, personalmente anche leggermente deliranti se devo essere sincera – consiglio un vestibologo, per chi di voi soffra di vertigini – arriviamo a una conclusione che ho trovato tuttavia frettolosa, e che priva di dignità un protagonista così ammirevole da fare male. Tutto ha una sua soluzione, ma forse ne avrei preferita qualcuna in meno a favore di un disegno più simmetrico da ammirare. Mi sento di dire che tuttavia vale la pena arrivarci, anche solo per poterne apprezzare la mediocrità rispetto al grande spettacolo che ci ha appena accompagnati.

Io scrivo storie, ma Piranesi è di gran lunga una storia migliore di qualsiasi altra che io possa mai scrivere.

Piaciuta questa captatio benevolentiae?

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