Voglio solo tornare a studiare.

La storia di Patrick Zaki inizia il 7 febbraio del 2020. 

Patrick è un ragazzo egiziano di trent’anni, laureatosi brillantemente presso l’Università della capitale, Il Cairo, in studi di genere, focalizzando la sua attenzione sulla condizione della donna e sulla comunità LGBT.

In Egitto Patrick ha lavorato per alcuni anni per un’associazione chiamata EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights) che si occupa di diritti umani. 

Ѐ un ricercatore brillante, come testimoniano tutte le persone a lui vicine, e nel 2019 vince una borsa di studio Erasmus.  Patrick arriva a Bologna nel settembre dello stesso anno e, dopo il primo semestre universitario, il 7 febbraio del 2020 torna in Egitto per andare a trovare i suoi familiari. 

La mattina del 7 febbraio all’aeroporto de Il Cairo, mentre era al telefono con sua sorella, viene fermato dalle forze di sicurezza egiziane: il suo nome era presente in una lista in cui venivano segnalate tutte le persone che, se fossero tornate in Egitto, avrebbero dovuto essere interrogate.

E di fatto quella mattina Patrick viene fermato e interrogato in aeroporto per circa quattordici ore perché accusato di diffusione di notizie false e propaganda sovversiva a causa di alcuni post, che lui sostiene di non aver mai scritto, pubblicati su una pagina Facebook, dunque non un profilo personale, che lui afferma di non gestire; viene quindi portato in un centro vicino all’aeroporto, poi nel carcere di Mansoura, la sua città natale, e infine trasferito nel carcere di Tora, dove sono detenuti terroristi e prigionieri politici: un vero e proprio inferno, dove Patrick vive ormai da venti mesi. 

Si tratta di una struttura divisa in quattro blocchi a forma di H, formati da trecentoventi celle, la maggior parte delle quali misura 2,5 x 3 metri ed è alta 3,5 metri; al suo interno sono presenti anche celle più grandi, che ospitano però oltre dieci persone e dove le brande non sempre sono presenti. Ogni cella ha una finestra di 90 x 80 cm che si affaccia sulle mura o su altre stanze carcerarie e dispone di una sola lampadina, la cui accensione è gestita da una sala di controllo. 

Nel dicembre del 2020 il Parlamento Europeo ha definito spaventose le condizioni di detenzione nel carcere di Tora, chiedendo l’autorizzazione all’accesso di un’organizzazione indipendente di verifica, accesso che a oggi non è ancora stato accordato.

Patrick, una volta arrestato, viene sottoposto a elettroshock e a torture di ogni genere, torture di cui portava i segni anche alla prima udienza in tribunale, definite “professionali” dai suoi avvocati, in quanto suppongono siano pratiche abituali delle forze di sicurezza del paese. 

Dopo il suo arresto per molti mesi non abbiamo più avuto sue notizie: non erano ammesse visite e neanche comunicazioni epistolari. 

Patrick non aveva un letto e non lo ha tutt’ora, non aveva vestiti e coperte che, una volta ottenuti, ha utilizzato nei mesi successivi come giaciglio; ciò gli ha causato un grave e forte mal di schiena che ancora lo affligge.

Le disumane condizioni di vita di quell’ambiente precipitano pochi giorni dopo il suo arresto a causa del diffondersi in Egitto, come nel resto del mondo, della pandemia da Covid-19; in carcere non ci sono mascherine, non è possibile rispettare il distanziamento se non in condizioni di isolamento e per di più Patrick soffre d’asma.

Inoltre a causa del Covid le udienze in tribunale non si sono tenute per molto tempo. Il 15 febbraio, in tribunale, Patrick riesce a parlare con i giornalisti a cui esprime il desiderio di voler solo tornare a Bologna, solo tornare a studiare. 

Sin dai primi mesi le sue udienze vengono rinviate di quindici giorni in quindici giorni, ma con il passare del tempo e l’arrivo della pandemia i rinvii diventano automatici e non richiedono nemmeno l’autorizzazione del tribunale. Solo a luglio del 2020 vengono riprese le udienze, ma lo stillicidio continua. Dal 26 luglio del 2020 in poi, quei quindici giorni diventano quarantacinque. Così di quarantacinque giorni in quarantacinque giorni trascorre un intero anno.

Alle preoccupazioni per la sua salute fisica si aggiungono a questo punto quelle per la sua salute mentale.

La situazione comincia a cambiare a luglio di quest’anno: Patrick viene interrogato e, sulla base degli esiti di questi interrogatori, viene avviato un processo la cui prossima udienza si terrà il 7 dicembre 2021, a ormai ventidue mesi dal suo arresto. Questo accade in una situazione in cui in Egitto le persone possono essere tenute in carcerazione preventiva fino a 24 mesi; nonostante ciò, molto spesso accade che le stesse persone vengono accusate di reati simili e lo stato di carcerazione preventiva va avanti come se nulla fosse. 

Nel frattempo Patrick descrive il suo stato di detenzione nelle lettere e durante gli incontri concessi ai genitori che ad oggi si tengono abbastanza regolarmente. Il suo stato mentale è attualmente caratterizzato da ansia e depressione; la sua richiesta è quella di tornare a Bologna o per lo meno di poter portare avanti il suo master in carcere attraverso le lezioni a distanza, richiesta ancora una volta negata.

Intanto l’accusa di notizie false viene aggravata a causa di un articolo che Patrick aveva scritto sulla comunità di cristiani copti in Egitto, minoranza religiosa a cui lui appartiene, alla quale semplicemente aveva dedicato un saggio.

Patrick potrebbe essere nostro fratello, un nostro collega universitario ed è doloroso constatare che le istituzioni italiane e quelle europee, di fronte ad una violazione di diritti umani di questa gravità, abbiano risposto con il silenzio. L’unica azione concreta realizzata in questi due anni da parte del ministero degli esteri, della Farnesina, dall’ambasciata italiana in Egitto è stata quella di inviare un proprio ambasciatore a seguire le udienze di Patrick.

Malgrado ciò, nel tempo parallelamente si è creata una mobilitazione pubblica veramente forte: Patrick ha ricevuto più di centocinquanta cittadinanze onorarie, ci sono state più di trentacinque proteste in più di sedici città, sono stati pubblicati oltre diecimila articoli e interviste sul suo caso; più di mille lettere sono state inviate all’Egitto per il rilascio di Patrick, richiesto anche dagli esperti delle Nazioni Unite, da quattro dichiarazioni dell’Unione Europea, dal congresso degli Stati Uniti, dalle organizzazioni internazionali, dai sindacati.

Patrick è però ancora in prigione e lo è proprio per la mancanza di un adeguato impegno da parte delle istituzioni italiane ed europee le quali ultime si sono mobilitate a livello parlamentare, ma poco hanno fatto attraverso la Commissione. 

Le istituzioni italiane hanno portato il caso di Patrick in parlamento due volte: il 7 aprile 2021 un gruppo di senatori ha chiesto di conferire la cittadinanza italiana a Patrick. La mozione viene votata da tutte le forze politiche che sostengono il governo Draghi; FDI si astiene, ma non esprime voto contrario. Il risultato è quindi unanime. Il giorno successivo però, durante una conferenza stampa, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha sostenuto e ribadito che la mozione parlamentare non deve necessariamente tradursi in un’azione di governo, rendendo evidente l’esistenza di grosse discrepanze a livello politico.

La stessa mozione è poi arrivata alla camera, anch’essa sottoscritta da tutti il 10 luglio del 2021, ma ad oggi siamo ancora in attesa che a questa mozione venga dato seguito.

Sappiamo perché ciò accade: ci sono motivi ben precisi per cui l’atto è ancora lì, sospeso in un limbo. Le sue motivazioni sono risultate evidenti già in un’altra tanto diversa quanto importante tragica storia, quella di Giulio Regeni; storia che ha reso evidente quanto l’Egitto sia per l’Italia un partner commerciale “ineludibile”, per citare l’ex Ministro degli Esteri Angelino Alfano. 

Questo per tre motivi. Il primo è quello della sua posizione geografica, poiché l’Egitto trovandosi nel Mediterraneo e al confine con la Libia, viene visto come un Paese che con quell’area può fare il lavoro che le istituzioni italiane non vogliono svolgere in riferimento all’accoglienza dei migranti che arrivano dalle coste libiche, dalla Turchia etc. Il secondo corrisponde agli interessi energetici che riguardano petrolio e gasdotti. La terza questione riguarda il commercio delle armi. L’Egitto in passato non era un partner commerciale di rilievo in materia di armi per l’Italia. Negli ultimi anni ha invece assunto il ruolo di acquirente importantissimo di armamenti e attualmente è diventato per l’Italia il maggiore partner commerciale nell’esportazione di armi.

All’Egitto vendiamo fregate, armi leggere e, per i prossimi cinque anni, abbiamo stretto un accordo di commessa pari a dodici miliardi di euro. Il governo potrebbe richiamare l’ambasciatore italiano da Il Cairo, convocare l’ambasciatore egiziano in Italia e interrompere le relazioni commerciali con l’Egitto.  

Ѐ necessario proseguire ora più che mai con la mobilitazione. Al momento molti sono i consigli comunali nei quali sono state presentate mozioni per chiedere la cittadinanza per Patrick, per chiedere lo stop della vendita di armi all’Egitto ed è bene rendere noto che possono essere presentate anche nei vostri comuni.

Ѐ necessario continuare a organizzare eventi per far sì che di questa storia se ne continui a parlare. 

Gli interessi economici non possono e non devono essere più importanti dei diritti umani. 

Continuiamo a parlare di Patrick, è un dovere farlo. Patrick ha dichiarato che solo i suoi libri e la consapevolezza della grande mobilitazione pubblica in atto in suo favore lo aiutano a mantenere stabile il suo stato mentale. Ha bisogno di sapere che non è solo nella sua battaglia di resistenza, perché la più grande paura di chi si trova in carcere è quella di essere dimenticato. Noi non ti dimentichiamo Patrick. Torna presto. 

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