Con la crisi ucraina riemergono i limiti del consiglio di sicurezza: su cosa si basa veramente il diritto internazionale?

Nel diritto internazionale, si indica con jus ad bellum il complesso delle norme che indicano le condizioni per poter andare in guerra e sono contenute nello statuto delle Nazioni Unite. Di base, tali regole sono piuttosto semplici: può essere considerata legittima un’operazione armata solo quando, per ragioni di urgenza, non c’è la possibilità di avere una previa risposta da parte della comunità internazionale (così come racchiusa nel consiglio di sicurezza) e vi è la necessità di difendersi da una violazione dell’integrità territoriale o dell’indipendenza politica. 
Prescindendo, dunque, da qualsiasi valutazione politica, da qualsiasi riflessione e dibattito sul ruolo forse marginale riservato alla Russia nella scena politica internazionale degli ultimi decenni, una cosa è certa: l’occupazione dell’Ucraina è illegittima.

Il punto su cui deve vertere la discussione, però, è un altro. Al fronte di una palese violazione delle regole sullo jus ad bellum e sullo jus in bello (le norme sul come si deve combattere, contenute per la maggior parte nella Convenzione di Ginevra e che vedono il loro fulcro nell’immunità dei non combattenti, palesemente violata negli attacchi sulla popolazione civile, in particolar modo a Kyiv e Kharkiv), quali sono le conseguenze?

Certo, ci sono le sanzioni economiche, che derivano da una valutazione politica e assolutamente non giuridica dell’occidente, coeso nell’imporre risposte, che, nell’ottica del diritto internazionale, dovrebbero avere una funzione più propriamente preventiva, che risolutiva. Inoltre, dal punto di vista giuridico e nel rispetto del diritto internazionale, le sanzioni dovrebbero provenire da un altro soggetto, il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, che, invece, è rimasto inerme e paralizzato al suo interno di fronte a questa crisi. 

Nell’impianto istituzionale che sorge dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, nella visione dei moderni padri del diritto internazionale, dovrebbe spiccare il volo, come una fenice, l’organismo delle Nazioni Unite, garante ultimo della pace mondiale e palcoscenico del confronto diplomatico. Le Nazioni Unite, quindi, escludono la possibilità di avere guerre (si pensi come la parola “guerra” non compaia mai all’interno dello Statuto) ma, allo stesso tempo, indicano, nel proprio atto costitutivo, le condizioni da rispettare, nel caso in cui ciò dovesse succedere. Un po’ una contraddizione in termini, ulteriormente enfatizzata dal fatto che questo organismo affida i poteri effettivamente rilevanti in merito al Consiglio di Sicurezza. 

Di certo non è una discussione nuova, né un concetto celato, ma nel momento in cui si dà a cinque paesi il diritto di veto sulla vita e sulla morte, la democraticità del sistema è sicuramente negata e, soprattutto, si riconosce implicitamente la possibilità di legittimare conflitti, con una valutazione che è sempre e solo politica.

Il Consiglio di Sicurezza, ovviamente, vedendo al suo interno Russia e Cina, non ha potuto imporre alcuna sanzione, né cercare di ricomporre la crisi. Allo stesso modo, il Consiglio di Sicurezza non potrà, una volta in cui tutto questo sarà finito, istituire un tribunale speciale e tutte le belle parole sul ripudiare la violenza e i crimini di guerra saranno ancora una volta vane.

Ma tutto ciò non deve stupire, il caso del Kosovo, tra i tanti, è stato paradigmatico. Di fronte alle più eclatanti atrocità contro la popolazione, il Consiglio di Sicurezza non riesce ad avvenire ad una soluzione e la NATO, senza alcuna autorizzazione, si fa paladina dei diritti dei civili e decide di intervenire, erigendosi a giudice del sentire collettivo, arbitro ultimo della morale occidentale. L’intervento viene spesso giudicato illegittimo ma necessario, si concretizza così la dottrina R2P (Responsability to protect, per cui di fronte a gravi e palesi violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato contro i propri cittadini, è responsabilità, e forse obbligo, della comunità internazionale intervenire) e non è sottoposto ad alcun giudizio ex post, nonostante la palese violazione del diritto internazionale. Poco importano gli interessi economici e di influenza nell’Europa orientale, poca importa che nella NATO ci sia la Turchia, che giornalmente perpetra violazioni dei diritti umani nei confronti dei propri cittadini, nel momento in cui era necessario intervenire in Kosovo, nessuna garanzia è stata data al diritto internazionale.

Anche oggi, davanti agli occhi sconvolti del mondo intero, la situazione in Ucraina non fa che confermare quanto le Nazioni Unite siano svuotate di ogni potere. 

Davanti a palesi ed eclatanti violazioni dei diritti umani e delle regole alla base del diritto internazionale, non c’è una risposta. I tavoli di confronto, i tentativi di mediazione, avvengono sulla spinta di singoli leader politici, lontano dal palazzo di vetro. E a cosa serve, allora, avere un organismo come le Nazioni Unite, a cosa serve avere un complesso di norme, eredità di secoli di rapporti internazionali e di conflitti sulla pelle dei civili, se non vi è modo di farle applicare, o meglio, se sono applicate in maniera selettiva solo a determinate situazioni?

Di fronte all’invito di Zelensky di rimuovere la Russia dalle Nazioni Unite, appare necessario un ripensamento della struttura di tale organismo, per permettere la sopravvivenza dello stesso diritto internazionale. È impensabile che nel 2022 questo tipo di escalation militare sia possibile, così come è impensabile che il trattato di non proliferazione nucleare (TNP) non veda alcuna concreta applicazione. Per far sì che il diritto internazionale, inteso nella sua origine di diritto delle genti (jus gentium), sia effettivo, è necessario un ripensamento ed una ristrutturazione dell’organismo preposto alla sua applicazione, le Nazioni Unite, il cui funzionamento non si deve basare esclusivamente su anacronistiche logiche di potere. 

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