Il prossimo 12 giugno, attraverso lo strumento del referendum popolare, saremo chiamati, ancora una volta nella storia del nostro Paese, ad esercitare il fondamentale diritto di voto. Questa volta, però, non si tratta di un referendum relativo a grandi scelte di civiltà quali l’aborto, il divorzio, l’acqua bene comune o, come sarebbe stato auspicabile, l’eutanasia legale; il referendum su cui siamo chiamati a votare si occupa del funzionamento e dei problemi interni della magistratura. Tali quesiti si caratterizzano per un tecnicismo esasperato e poco comprensibili ai più o, comunque, relativi a questioni che, almeno in parte, già rientrano nella riforma Cartabia e sono in discussione da tempo alla Commissione Giustizia in Senato.
Proporre dei referendum su questi argomenti rappresenta, pertanto, un’indebita interferenza ai danni dell’iter legislativo che rischia di ostacolare una vera riforma della giustizia in relazione agli esiti di una inopportuna consultazione popolare.
I referendum non nascono come un sistema per contrapporsi a un potere dello Stato (la magistratura oggi, il parlamento ieri, il governo poi), ma per compiere scelte di civiltà.
Accade ancora una volta che la politica parlamentare non sia, o non voglia rendersi in grado, di assumersi le proprie responsabilità scaricandole sui cittadini e trasformando lo strumento della democrazia diretta in un inadeguato sostituto di quella rappresentativa piuttosto che in un suo sano collaboratore che possa contribuire a porle in costante tensione.
Con simili presupposti, l’unica risorsa che resta e che dovrebbe essere messa a disposizione dei cittadini, di fronte all’incombente necessità di assumere decisioni di così grande rilevanza, sarebbe quella di una corretta informazione, colma di contenuti e opinioni a confronto. Pertanto, risulta evidente l’inadeguatezza di una campagna pubblicitaria ed informativa esigua e inconsistente come quella attivata negli ultimi giorni, complici gli stessi promotori.
Il contesto che ha portato Lega – parte integrante come forza politica di un governo che, come detto e come si ripeterà, sta portando avanti una complessa compagine legislativo -governativa che si auspicherebbe non fosse contrastata dall’interno, allo scopo di alterare l’indirizzo politico di maggioranza – e Radicali, a raccogliere le firme per il referendum della Giustizia Giusta, nasce dal caso Palamara.
Come noto la magistratura, a norma dell’articolo 104 della Costituzione, è ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato. Nel rispetto della Carta, dunque, il nostro ordinamento giuridico prevede che i magistrati prendano le decisioni attraverso un organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura.
Luca Palamara, ex membro del CSM ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, nel 2019 viene accusato di aver ricevuto soldi e regali per influenzare alcune sentenze. Palamara, secondo le accuse, viene a conoscenza dell’indagine nei suoi confronti da amici e colleghi e cerca di influenzare la nomina del futuro procuratore di Perugia (che è procura competente sulle indagini dei magistrati di Roma) così da avere un alleato a capo dei magistrati che stavano indagando su di lui. Dal caso in questione, però, ciò che di importante si rileva è il suo non essere stato un fatto isolato: anche altri membri del CSM sono stati scoperti ad aver incontrato politici di vari schieramenti per concordare nomine e promozioni tra giudici. In sostanza, questo sistema è la prassi e il caso in questione ha fatto emergere l’esistenza di una struttura che condiziona le nomine e i vertici degli uffici giudiziari italiani. Il sistema Palamara consiste nella spartizione dei ruoli da parte di gruppi associativi, le cd. correnti, in cui è divisa la magistratura italiana e le cui dinamiche non sono tanto diverse da quelle dei partiti. Ad ogni corrente spettano alcune nomine che vengono poi concordate dai capi corrente (Palamara viene ricordato come uno dei principali ex capi corrente dell’area centrista di Unicost). Questo meccanismo spartitorio è possibile poiché il peso delle correnti si riflette nella composizione del CSM, organo elettivo che disciplina la vita interna dei magistrati e che si occupa delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Il sistema suddetto e il potere delle correnti ha prodotto e dato avvio ad una logica escludente e discriminatoria all’interno della stessa categoria dei magistrati: un magistrato non iscritto a correnti, infatti, non ha alcuna possibilità di essere nominato ad una procura importante se non appartenente a gruppi di potere. Con questa logica viene tenuta in piedi la magistratura associata con la partecipazione dei gruppi alla scelta del candidato migliore individuato dalla corrente.
È questo il meccanismo che si vuole andare a scardinare con la riforma dell’ordinamento giudiziario che si sta discutendo in Commissione Giustizia al Senato e che tende a rendere meno pervasiva la stortura delle correnti, sia nelle elezioni dei membri del CSM che nelle nomine dei vertici delle singole procure.
Come precisato, tre dei quesiti proposti, si riferiscono ad argomenti già in esame in Commissione Giustizia:
Il quesito referendario n.3 (scheda gialla) riguarda i magistrati e la separazione delle loro carriere. La normativa attualmente in vigore non obbliga i magistrati a scegliere all’inizio della loro carriera di assumere irrevocabilmente funzioni requirenti (sostituto procuratore o pubblico ministero) o giudicanti (giudice), offrendo la possibilità di passare dall’uno all’altro per quattro volte; la risposta affermativa al quesito referendario, comporterebbe l’abrogazione della norma, impedendo i suddetti passaggi e soprattutto inasprendo i contenuti della riforma Cartabia che ne prevede la limitazione a uno.
A questo punto, sarebbe bene chiedersi se il referendum abrogativo, per decidere una materia così particolarmente complessa, sia veramente lo strumento più auspicabile da utilizzare: il Titolo IV della Costituzione nella delineazione dei principi e delle regole che disciplinano la magistratura, non realizza distinzioni tra giudici e pubblici ministeri e, sulla modifica de facto della Carta Costituzionale, dovrebbero sorgere degli interrogativi e delle perplessità da non lasciare indifferenti.
Il quesito referendario n.4 (scheda grigia) riguarda la valutazione sull’operato delle toghe.
La normativa attualmente in vigore, prevede l’esclusione dei membri laici (giuristi e avvocati) dalle discussioni e dalle valutazioni in merito alla professionalità dei magistrati e al loro operato, oggi demandata solo a chi indossa la toga; la risposta affermativa al quesito referendario abiliterebbe docenti universitari in materie giuridiche e avvocati, in qualità di componenti laiche, a intervenire e votare in Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari Territoriali; l’intento dichiarato è quello di promuovere una valutazione più oggettiva sul lavoro svolto dai togati, basato sull’idea di una presunta, ma non comprovabile, maggiore obiettività dei membri laici che non potrebbero venire influenzati dalle correnti interne.
Dunque, se è vero che le valutazioni – sulla base dei dati forniti direttamente dal CSM, dai quali risultano percentuali di giudizi positivi mai inferiori al 92 – siano poco attendibili; anche qui, è bene domandarsi la reale possibilità che membri laici, quali avvocati e professionisti provenienti dallo stesso settore, siano in grado realmente di garantire pura imparzialità e terzietà.
Le soluzioni proposte dalla riforma Cartabia, meno restrittive, prevedono, invece, l’apertura a una sola componente laica, quella dell’avvocatura e l’introduzione di un fascicolo di valutazione statistica delle attività dei magistrati.
Il quesito referendario n.5 (scheda verde) riguarda l’elezione dei componenti togati del CSM.La normativa in vigore prevede che, per candidarsi, togati o laici necessitino di minimo 25 firme di colleghi; l’assenso al quesito svincolerebbe le candidature dai legami con le “correnti”, i gruppi con orientamento politico presenti nell’ANM.
Tuttavia, anche l’eliminazione della raccolta firme, è presente nel pacchetto Cartabia proprio per evitare che la partecipazione ad un gruppo associativo possa sgravare il magistrato dal dovere di ricercare le firme autonomamente.
Ancor più inadeguata, risulta la scelta referendaria al fine di dirimere le questioni poste nei quesiti n.1 e n.2.
Il quesito referendario n.1 (scheda rossa) riguarda l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive di senatori, deputati e parlamentari europei ai condannati – in via definitiva – per reati particolarmente gravi come mafia, terrorismo, reati contro la PA e delitti non colposi per i quali sia prevista la pena a reclusione non inferiore a quattro anni, come previsto dalla Legge Severino.
Per gli amministratori locali, la stessa legge prevede però, la sospensione temporanea del mandato, di massimo un anno e mezzo, anche in caso di condanna non definitiva. Quest’ultimo aspetto, si trova in oggettivo e in osceno contrasto con l’articolo 27 comma 2 della Costituzione il quale statuisce che nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Le motivazioni del sì non tengono forse però adeguatamente conto degli effetti dell’abrogazione del Testo Unico, nella sua interezza, che consentirebbe ai condannati con sentenza definitiva di proseguire il mandato o ricandidarsi.
C’è dunque da chiedersi se a nome del sacrosanto garantismo che fonda la Carta Costituzionale e l’ordinamento penale di questo Paese, sia accettabile e legittimo danneggiare interamente uno dei più ampi e avanzati interventi normativi di lotta alla corruzione degli ultimi anni.
Infine, il quesito referendario n.2 (scheda arancione) che, a seguito dell’abrogazione dell’ultima parte dell’art. 274 del Codice di Procedura Penale, libererebbe dall’obbligo di custodia cautelare – limitazione della libertà personale preventiva alla sentenza di condanna – diverse tipologie di reati quali: pericolo di fuga, inquinamento delle prove o quando sussiste il concreto e attuale pericolo di reiterazione del delitto.
Secondo le statistiche, ogni anno in Italia circa mille persone vengono ingiustamente detenute: il 31% dei detenuti non è mai stato condannato. Ciò rileva quale costo spropositato ai danni delle casse dello Stato ma, ancora di più, rappresenta un irreparabile danno alla vita delle persone coinvolte. La custodia cautelare è oggi uno strumento di abuso che limita i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione a cominciare dall’articolo 13.
Dare il proprio assenso a questo quesito porterebbe all’abolizione della custodia cautelare per i reati di reiterazione la cui condanna eventuale non superi i quattro anni. L’ex magistrato e senatore di Rifondazione Comunista Domenico Gallo ha però fatto presente che questo quesito referendario andrebbe ad abolire, oltre alla custodia cautelare carceraria, anche le altre differenti forme in cui si esplica quali il divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati dalla persona offesa, l’obbligo di soggiorno, il divieto temporaneo di esercitare una professione o un’impresa e altro ancora.
Arrivati a questo punto, nonostante uno specchietto estremamente riassuntivo e semplificativo di questo tipo possa rendere un po’ più chiare le dinamiche interne del sistema giudiziario e condurre ad una scelta popolare un minimo più consapevole, risulta anche oggettivamente evidente la legittima impossibilità da parte dei più, di comprendere adeguatamente i meccanismi tecnici e articolati su cui si basa il funzionamento della giustizia e le materie che dovrebbero essere oggetto di un dibattuto e puntuale intervento legislativo, frutto di competenze di alto profilo tecnico e politico che non dovrebbero essere rimesse nelle mani di chi ha votato proprio per evitare che fosse così. Compito dei cittadini è quello di informarsi e rendersi più consapevoli sulle cause umane e collettive che pervadono la società, a partire dalla consapevolezza del voto in merito alle competenze dei propri rappresentati; il ruolo della politica è, invece, quello di assumersi la responsabilità di affrontare questioni di grande rilevanza collettiva di cui però il singolo privato cittadino, sottoposto ai limiti umani, non può farsi carico assumendosi così il rischio di provocare danni irreparabili che non è neppure in grado di comprendere pienamente.