I fantasmi di Portopalo

La vicenda: La tragica vicenda dei “fantasmi di Portopalo” (o “strage di Natale”) è un sinistro marittimo avvenuto in acque internazionali nella notte tra il 24 e il 25 dicembre del 1996, a 19 miglia nautiche (35 km) dalla località siciliana di Portopalo di Capo Passero (in provincia di Siracusa). La nave coinvolta (F174) è una vecchia nave di legno con a bordo più di 300 migranti provenienti da India, Pakistan e Siri Lanka. Quella notte, 283 passeggeri perdono la vita, 27 di loro sono dispersi e solo una trentina sono i sopravvissuti (anche se i numeri non sono precisi: si parla di “naufragio fantasma”).

La vicenda, all’epoca, fu etichettata come la più grande tragedia navale del Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale, e rimase tale sino al naufragio di Lampedusa (avvenuto il 3 ottobre 2013, che causò la morte di 368 persone).

La dinamica del sinistro: Dalle ricostruzioni dei pochi superstiti, per affrontare il viaggio viene inizialmente scelta la nave da carico “Yiohan”. Tuttavia, a causa delle condizioni precarie della medesima, alle 470 persone che si trovano rinchiuse nella stiva viene imposto di trasbordare sulla nave F174: un battello anch’esso mal ridotto e con una capienza massima di 80 passeggeri.

Poche ore dopo, a causa di una mareggiata e delle pessime condizioni della F174, quest’ultima inizia ad imbarcare acqua. Pertanto, il comandante chiede aiuto alla nave Yiohan che, tornando indietro, impatta con la nave, facendola affondare. Solo una trentina di soggetti (tra cui il comandante) riescono a salire a bordo della Yiohan e a mettersi in salvo, raggiungendo le coste della Grecia. Qui i passeggeri vengono segregati e costretti all’omertà: la vicenda non deve venire allo scoperto. Nonostante pochi di essi riescano a fuggire e denunciare la vicenda alla polizia, quest’ultima non crede alle ricostruzioni dei superstiti, anzi, arresta i “clandestini”.

L’inchiesta e l’omertà dei pescatori: Nei giorni successivi alla tragedia i pescatori di Portopalo pescano con le loro reti numerosi cadaveri, ma, per timore di essere sottoposti ad interrogatori e a lunghi sequestri delle imbarcazioni (senza alcuna compensazione economica), non denunciano il fatto alle autorità, rigettando ogni volta i cadaveri in mare. Questi ultimi vengono soprannominati “i tonni del mediterraneo”.

La tragedia rimane sconosciuta sino a quando un pescatore del luogo, Salvatore Lupo (ignaro del naufragio), rompe il muro dell’omertà. Andando a pesca, le sue reti restano impigliate sott’acqua. Ritirandole, queste raccolgono dei vestiti con delle monete nelle tasche e la carta d’identità di un giovane di 17 anni: Ampalagan Ganeshu, originario di Chawchsceri (Sri Lanka). Salvatore Lupo è quindi l’unico pescatore che ha il coraggio di denunciare alla Capitaneria di Porto il ritrovamento dei vari oggetti e segnalare la probabile presenza di un relitto. Tuttavia, inizialmente le autorità non gli credono. 

L’inchiesta giornalistica: Per dare voce alla vicenda, Salvatore Lupo contatta il giornalista del quotidiano “la Repubblica” Giovanni Maria Bellu, che già da tempo stava indagando su alcune voci che giravano sul naufragio. Quest’ultimo si impegna a sue spese in un’indagine internazionale alla ricerca della verità. 

Nel 2001, grazie al finanziamento di Repubblica e L’Espresso, Bellu noleggia un sottomarino a comando remoto (ROV) per filmare il relitto sul fondale. Il ROV svela il più grande cimitero del Mediterraneo fino a quel momento: trova lo scafo della F174 (con un grave danno alla prua e sul lato destro) e decine e decine di scheletri avvolti negli stracci (molti di essi, ancora imprigionati nella stiva della nave). Ancora oggi, Il relitto e le sue vittime giacciono in fondo al mare, a 108 metri di profondità.

Il processo bloccato a metà: A seguito dei primi articoli pubblicati da Bellu, la Procura di Siracusa apre un’inchiesta e i membri dell’equipaggio vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo. Tuttavia, il ritrovamento del relitto in acque internazionali (al di fuori della giurisdizione italiana), costringe la magistratura ad abbandonare ogni accusa e il processo viene interrotto per mancanza di competenza territoriale. 

Per ovviare alla questione creatasi, la Procura di Siracusa, in via del tutto straordinaria, applica la norma del codice penale che prevede, in casi di eccezionale gravità, di perseguire crimini commessi al di fuori del territorio nazionale: in tal caso, un omicidio volontario plurimo aggravato. Il reato è addebitabile a due soggetti: il capitano della nave F174 Eftychios Zebourdakis (fuggito in Francia) e un trafficante pakistano. Tuttavia, il processo rimane aperto solo per l’armatore pakistano Tourab Ahmed Sheik, residente a Malta, in quanto la Francia si oppone alla richiesta di estradizione del capitano (rifugiatosi nel frattempo oltralpe). Nel 2008, l’armatore viene condannato in appello a 30 anni di carcere insieme al comandante della nave (contumace), dopo che il processo di primo grado presso il tribunale di Siracusa, nel 2007 li aveva assolti.

Nel corso del procedimento, i parenti delle vittime chiedono più volte di essere ascoltati, ma le ambasciate italiane negarono loro il visto d’ingresso per l’Italia. Visto che viene negato anche a Balwant Singh Khera: guida spirituale della comunità pakistana che aveva realizzato un dossier sull’organizzazione dei trafficanti utile all’indagine e che nel 2005 viene chiamato a testimoniare.

L’ambasciata dello Sri Lanka è l’unica a non entrare nella questione, dal momento che le vittime cingalesi sono per lo più Sikh e Tamil: minoranze perseguitate in quel paese.

Le richieste degli abitanti del posto, di associazioni europee per i diritti civili e del Governo portoghese nei confronti del Governo guidato da Silvio Berlusconi per recuperare i rottami e i cadaveri rimangono inascoltate, così come la richiesta di apertura di un’indagine ad ampio raggio sul traffico dei migranti nel Mediterraneo.

Ci sono delle ipotesi sulla scarsa attenzione prestata alla vicenda da parte della stampa italiana.

L’ex Deputata della Federazione dei Verdi Tana da Zulueta ricorda che l’Italia all’inizio del 1997 stava per entrare nel Trattato di Schengen. Bisognava pertanto dare, agli occhi degli altri Stati europei, forti garanzie di “buona condotta” e capacità di gestire la frontiera: far passare l’idea che tale frontiera fosse così porosa lasciare che più di 300 persone potessero sbarcare sulle coste siciliane, non era per nulla desiderabile. 

La fiction: Sulla vicenda, non mancano le voci di letterati e produzioni cinematografiche.

Fu lo stesso giornalista Bellu a scrivere un libro di denuncia sociale sulla vicenda, che diede ispirazione alla fiction, nel 2017, “i fantasmi di Portopalo”: una produzione di Rai Fiction e Iblafilm.

Un racconto di omertà e disumanità, che ancora oggi rimane una delle pagine più nere della storia del mediterraneo. Come scrive Bellu nel suo libro: “I fantasmi di Portopalo sono diventati i fantasmi dell’Europa”.

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