Bisogna usare le parole giuste: le parole sono importanti!

Il tema della declinazione al femminile delle parole nella lingua italiana, recentemente tanto discusso soprattutto in riferimento ai ruoli vertice del potere, ritengo sia una questione che un sano attivismo politico non può eludere. Calmatesi ormai le acque relativamente al caso Meloni, occorre continuare ad analizzare e approfondire la questione, per acquisire strumenti utili a dar seguito e mantenere vivo il dibattito sull’argomento in modo costruttivo.

Rimanendo in tema di “acque”, risulta evidente quanto alimentare il confronto critico sia essenziale per combattere la fluidità di pensiero che caratterizza la nostra odierna società, definita non a caso visionariamente “liquida” da Zygmunt Bauman: liquida nell’elaborazione del pensiero, nelle scale valoriali, nei grandi temi che contraddistinguono la nostra generazione. Tutto è importante e nulla è importante, si parla di tutto e di niente, ogni argomento lascia il tempo che trova, che si traduca in 2.000 caratteri di un post su Instagram o nei secondi scanditi dai reels di TikTok. È tempo di ridare un senso ai nostri vissuti, di combattere la mediocrità dilagante, di contrastare pregiudizi e tentativi di sopraffazione, di riscoprire l’importanza di opporsi alle ingiustizie, di lottare contro le disuguaglianze.

Ed è proprio per questo che ci tengo a riprendere il tema dell’uso del linguaggio, poiché in cuor mio lo ritengo estremamente prioritario, nonostante la gran parte di politici, giornalisti e dell’opinione pubblica non lo abbiano etichettato come tale, in confronto a problemi economici e sociali, quali bollette e inflazione. Questo, perché ci si rifiuta di collegarlo alla strage di donne che continua a perpetuarsi senza fine, senza soluzioni efficaci, trovando nell’indignazione l’unica sterile risposta. Ci si rifiuta di prendere atto che la vera ragione sottesa alla condizione di sudditanza della donna nella nostra società, che ama definirsi civile, è di natura culturale.

Le donne vivono discriminazione e violenza di genere anche, o meglio, primariamente, in relazione al linguaggio. Primariamente perché il tema del linguaggio è, occorre riconoscerlo, una priorità socio – politico – culturale: perché le parole sono importanti! Il ruolo determinante del linguaggio nella costruzione del nostro pensiero è innegabile; il retaggio linguistico si traduce inevitabilmente in retaggio culturale e influenza profondamente i contesti sociali. Il racconto di Orwell in “1984” descrive in modo estremamente calzante il ruolo rivestito dall’uso del linguaggio all’interno di uno Stato totalitario. L’autore ritiene che il linguaggio in politica svolga una funzione essenziale poiché può avere la capacità di distorcere concetti e accadimenti, dando loro forme ritenute “più opportune” alla realizzazione degli scopi prefissati. Importante è la riflessione condotta nell’opera non solo sull’uso potenzialmente mistificatore del linguaggio, ma anche sul pericolo che alcuni concetti possano cessare automaticamente di esistere in conseguenza della totale eliminazione dai dizionari e dal linguaggio comune, scritto o parlato, delle parole che li identificano.

I concetti infatti vengono espressi attraverso le parole e la lingua che le definisce; in caso contrario, banalmente, non esistono. Il concetto di libertà non sarebbe mai potuto nascere se l’essere umano non avesse coniato delle voci per esprimerlo e definirlo. Allo stesso modo non esisterebbe, per esempio, il concetto di femminicidio (ben distinto rispetto al più generale fenomeno dell’omicidio), se non fosse stato introdotto dalla criminologa femminista Diana H. Russell nei primi anni ‘90.

E quindi c’è da chiedersi: ci si potrebbe ribellare a una forma di Stato autoritario, se non si avesse modo di definire quale sarebbe l’alternativa? E ancora, potrebbe una donna provare a difendersi da uomini violenti, da chi vuole annientarla psicologicamente, socialmente e fisicamente, in quanto donna, in assenza di parole che possano definire i contorni di questa violenza?

Si può dunque ben comprendere la portata delle parole e la loro rilevanza per la salvaguardia dei diritti di tutti.

Giorgia Meloni è una donna e in qualità di donna è la Presidente del Consiglio, a meno che la sua persona non si riconosca in un genere differente;m. A tal proposito ritengo opportuno sottolineare l’importanza e il valore che in questa sede si dà all’autodeterminazione di genere e l’assoluta legittimità della sua rivendicazione. Di fatto però chiamare Giorgia Meloni “Il Signor Presidente del Consiglio” equivale invece a rafforzare il subdolo e soffocante patriarcato che ha colonizzato e continua a colonizzare in modo radicale la nostra società e che, anche grazie al contributo di queste ipocrite prese di posizione, può essere considerato primo responsabile dell’uccisione di centinaia di donne ogni anno.

Si è accennato, in riferimento a George Orwell e ai totalitarismi, alla straordinaria capacità propagandistica delle macchine amministrativo – istituzionali che, grazie all’utilizzo del linguaggio, sono in grado di plasmare dall’alto e dal basso il pensiero di donne e uomini.

Il Presidente, il Ministro, l’avvocato, il notaio, il medico, il chirurgo, il giardiniere, l’operario, il segretario, l’infermiere sono tutti esempi di professioni maschili che le basilari regole grammaticali della lingua italiana consentono di declinare al femminile.

Sorge spontanea la domanda: perché abbiamo difficoltà a declinare al femminile la Presidente (una parola, tra l’altro, linguisticamente ambigenere), la medica, la notaia e non abbiamo la stessa identica difficoltà nel declinare altri tipi di professioni quali la segretaria o l’operaria? A questa domanda spesso mi è stato risposto che alcuni sostantivi declinati al femminile risultano cacofonici. La domanda successiva da farsi è: perché? Perché avvocata (non avvocatessa, il cui suffisso è stato frequentemente usato in modo ironico e denigratorio e comunque non definisce un’esatta parità tra i generi) sarebbe cacofonico, mentre operaia non lo è? Eppure erba medica è una parola che esiste e che viene utilizzata quotidianamente, il che sta a significare che il sostantivo femminile medica sia declinabile e lo sia soprattutto senza che il suono ne risulti sgradevole all’orecchio. Per quanto la domanda possa apparire spontanea, la risposta non si può dire lo sia altrettanto. Bisogna infatti indagare su quanto l’utilizzo della lingua italiana venga adoperato in termini sessisti. Nella parola “sindaco” per esempio, così come in sindaca, è la radice “sindac*” a rimandare al significato, ovvero alla carica istituzionale. La –a e la –o servono solo a indicare se la carica è ricoperta da un uomo o da una donna. Ma siccome storicamente questa carica è stata appannaggio degli uomini, istintivamente il maschile ci appare come più rappresentativo del ruolo. Se il linguaggio influenza il pensiero e il pensiero influenza il linguaggio ed entrambi sono inseriti all’interno di una realtà storica e sociale radicata da migliaia di anni, costruita dai tempi dell’Antica Roma sul Mos Maiorum e il Pater Familias, non si può negare una consolidata tradizione patriarcale avallata da un linguaggio e da un pensiero che vengono poco aiutati a progredire verso la parità di genere.

Il sessismo nel linguaggio è reso evidente anche dall’uso dell’articolo determinativo che spesso viene anteposto al nome di donna. Infatti, secondo l’Accademia della Crusca, l’articolo davanti ai cognomi femminili ha lo scopo di individuare il genere della persona a cui ci si riferisce: quando l’articolo non è presente, una persona è di sesso maschile, viceversa è femminile. Ciò a dimostrazione di quanto il sesso sia ancora fonte di giudizio. Non fanno eccezione le figure femminili che fanno parte delle Istituzioni Pubbliche o che ricoprono ruoli prestigiosi in molti altri contesti pubblici e privati: è usuale che ci si riferisca loro come la Boldrini, la Meloni, la Gruber, la Boschi, mentre Matteo Salvini è Salvini e mai “il” Salvini, Enrico Letta è Letta e non “il” Letta, Silvio Berlusconi non è “il” Berlusconi. Potrebbe sembrare una banalità, un problema più formale che sostanziale, ma invece la sostanza c’è se ci si ferma a riflettere, perché nella lingua italiana l’articolo determinativo si riserva a categorie generali di “persone, animali, oggetti, concetti” (fonte Treccani). Questo è solo uno della miriade di esempi di come, anche attraverso il linguaggio, il patriarcato continui a esercitare in modo subdolo il suo potere anche attraverso l’uso delle basilari regole sintattiche della nostra lingua. Prenderne consapevolezza è tanto complicato quanto necessario per discostarsene. Dunque partire dal linguaggio è imprescindibile per scardinare costumi patriarcali radicatisi nel tempo; per questo è necessario che la questione venga guardata e gestita come centrale.

Così chiamare Giorgia Meloni la Presidente e non il Presidente è un atto prima di tutto politico e non una banale questione linguistica che con il tempo permetterà di accreditare il ruolo della donna come figura abitualmente presente all’interno di organi di vertice e di potere prestigiosi. L’italiano è una lingua declinabile e utilizzare il maschile non equivale ad utilizzare una declinazione neutra. L’importanza dell’uso del femminile nelle professioni e negli incarichi è rilevante non solo a livello di correttezza formale ma anche per legittimare i ruoli di rappresentanza delle donne nella società.

Come ricorda Nanni Moretti nel capolavoro cinematografico “Palombella Rossa”, «Chi parla male, pensa male e vive male». Il linguaggio è dunque uno degli strumenti di lotta per l’azzeramento delle discriminazioni fra i sessi. Bisogna quindi imparare a usare le parole giuste: perché le parole sono importanti.

Loading

Facebook Comments Box