a cura di Lucrezia Di Stefano
Lo scorso 8 agosto è stato approvato in prima lettura a Palazzo Madama il ddl Boschi che riforma Senato e titolo V parte II della Costituzione. Dal 14 luglio fino alla fatidica data prefissata dal Governo, quale termine ultimo per la prima lettura, si è assistito ad un particolare e per alcuni aspetti paradossale iter parlamentare, segnato dalla presentazione di 8mila emendamenti da parte delle forze di opposizione, dall’uso della celebre regola del “canguro”, dalla presenza di franchi tiratori nelle votazioni a scrutinio segreto e in ultimo da ritmi di lavori parlamentari al limite della legalità sindacale. Lasciando ai posteri le valutazioni politologiche, analizziamo il contenuto di questa riforma che rappresenta una profonda riscrittura della nostra Costituzione e del processo legislativo senza precedenti. Innanzitutto viene sancita la fine del bicameralismo perfetto; pertanto la sola Camera dei Deputati diviene titolare del potere legislativo per la generalità dei casi (si mantiene invece la titolarità condivisa per le riforme costituzionali e l. cost.) e accorda o nega la fiducia al Governo. Il Senato della Repubblica “rappresenta le istituzioni territoriali” ed è pertanto composto da 100 (e non più 315) senatori: 95 eletti indirettamente e scelti tra i componenti dei Consigli regionali e i restanti 5 eletti dal Presidente della Repubblica; tutti muniti dell’immunità parlamentare ma senza indennità. Per quanto concerne invece il procedimento legislativo, il Senato, pur non approvando le leggi, ha il potere di disporre l’esame di ogni ddl approvato dalla Camera, su richiesta di un terzo dei suoi componenti ed entro i 30 giorni successivi può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei Deputati si pronuncia in via definitiva. C’è poi una corsia preferenziale per i ddl del Governo che, indicati come “essenziali per l’attuazione del programma di governo”, possono essere promulgati anche entro 60 giorni dalla richiesta; all’art. 77 Cost. sulla decretazione d’urgenza sono stati aggiunti commi che recepiscono la consolidata giurisprudenza costituzionale tesa ad evitarne un utilizzo abnorme. Sono state abolite il Cnel e le province ed è stato introdotto il giudizio preventivo della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali; infine, è stato nuovamente riscritto, a soli 14 anni dall’ultima riforma, il riparto di competenze legislative tra Stato eRegioni (art. 117 Cost.), con il rafforzamento e l’aggiunta di materie di competenza esclusiva dello Stato, la cancellazione di quella concorrente e la positivizzazione delle materie di competenza residuale delle Regioni; tuttavia, mediante l’introduzione della c.d. “clausola di interesse nazionale”, in forza della quale il Governo può intervenire anche in materie regionali, le Regioni rischiano di fatto di non esercitare alcuno o quasi potere legislativo, con un ritorno ad un forte accentramento del potere allo Stato centrale e la fine del tanto reclamato decentramento, coronato nella riforma del 2001; accentramento avallato anche dalla formale abolizione delle province. Ora il provvedimento passa alla Camera per la seconda lettura e ne occorreranno almeno quattro, tra Camera e Senato, per una definitiva approvazione. Quale sarà l’esito di questo lungo e politicamente complesso iter parlamentare non è dato saperlo, però una cosa è certa: nel nuovo assetto costituzionale delineato dal ddl Boschi viene formalizzata una situazione di fatto in cui il Parlamento si limita, per il 60% dei casi, a convertire in legge i decreti del Governo (conversione sulla quale molto spesso viene posta la fiducia), perché si ritiene che ormai il Parlamento non sia più dotato di strumenti di legislazione “a passo con i tempi”; perciò sono facilmente giustificabili i requisiti di “necessità e urgenza” richiesti dall’art. 77 Cost. per adottare il decreto legge, alla luce poi del delicato periodo economico-politico cui assistiamo. E soprattutto si ritiene che il nostro Parlamento non abbia più quella forza e autorevolezza politica propria di un organo che rappresenta ed esercita la sovranità del popolo secondo Costituzione. Contestualmente il Governo da anni tende ad imporsi come organo centrale del nostro sistema costituzionale, con un Presidente del Consiglio sempre più simile ad un primus super pares. Inoltre il Governo, insieme al Presidente della Repubblica, ha gradualmente attratto a sé l’esercizio di un potere legislativo che il Parlamento da solo fa sempre più fatica ad esercitare, dovendosi considerare non solo il bicameralismo perfetto, ma anche diversi fattori extranazionali, quali: lo spostamento del potere decisionale al legislatore europeo,il peso assunto dalle dichiarazioni del Presidente della BCE come anche dai memoranda di JP Morgan e in generale l’influsso della finanza. Tutti questi fattori non lasciano certo il nostro Parlamento legiferare in solitario e guardare soltanto al rapporto di fiducia accordato al Governo. In conclusione,dell’esigenza di una camera rappresentativa delle Autonomie territoriali e con funzioni diverse dalla Camera dei Deputati se ne fecero portavoce anche i Padri Costituenti e della crisi del nostro Parlamento se ne parla ormai da anni, ma… alla luce del contenuto di questa riforma sul Senato, che non a caso è di iniziativa del Governo (e non del Parlamento), siamo proprio sicuri di poter ancora definire la nostra forma di governo una Repubblica parlamentare?