Blackface: una Hollywood “politically incorrect”

Il politicamente corretto e l’ambiente hollywoodiano non sono mai andati a braccetto. Ancora oggi alcuni prodotti della capitale del cinema mondiale sono ampiamente criticati per alcune scene razziste o sessiste. Ma nella storia della settima arte, il fenomeno “blackface” è certamente uno dei risultati più negativi, i cui effetti aleggiano ancora nella cultura di massa.

L’origine di questa pratica è da ricercare ben prima della Golden Age of Hollywood, a metà del XIX secolo. Durante quel periodo nascono i cosiddetti “minstrels”, ossia attori di varietà o musicisti che, travestiti da afroamericani, imitavano gli schiavi delle piantagioni del Sud dipingendoli come pigri, rozzi e codardi.

L’uso della blackface arriva anche sul grande schermo: nel 1927, l’attore Al Jolson si esibisce con il volto dipinto di nero nel film “The Jazz Singer”. Da quel momento il fenomeno non si è arrestato. Da Judy Garland a Shirley Temple, tantissimi interpreti hanno truccato la loro faccia, imitando l’accento e le danze tipiche afroamericane. Se da un lato questa pratica si rendeva necessaria per la rappresentazione di personaggi neri, dato lo scarsissimo accesso degli attori di colore a Hollywood, dall’altro, risultava oltremodo offensiva e da molti studiosi è addirittura considerata come la genesi di una “eredità dannosa” nell’arte e nell’intrattenimento.

Gli spettacoli dei minstrels prima, e gli attori bianchi in blackface poi, sono stati per anni l’unica rappresentazione della vita degli afroamericani a cui il pubblico americano aveva accesso. Rappresentare gli africani ridotti in schiavitù come oggetto di barzellette ha desensibilizzato gli americani bianchi agli orrori della schiavitù. Le esibizioni hanno anche promosso umilianti stereotipi sui neri che hanno contribuito a confermare le nozioni di superiorità dei bianchi. Secondo lo Smithsonian’s National Museum of African American History and Culture (NMAAHC), “distorcendo le caratteristiche e la cultura degli afroamericani – inclusi il loro aspetto, la lingua, la danza, il comportamento e il carattere – gli americani bianchi sono stati in grado di codificare il bianco attraverso le linee di classe e geopolitiche come sua antitesi”.

La blackface e l’ordinamento giuridico americano

Negli Stati Uniti praticare la blackface non è un “criminal offence” (reato), questo perché il Primo Emendamento tutela la libertà di parola e di espressione, quindi non si può essere “criminally charged” solo per aver parlato o per essersi espressi in modo offensivo.

La blackface potrebbe però essere considerata un “civil tort”, ossia un illecito civile. È possibile denunciare un tale comportamento grazie al sistema statunitense dei “tribunali aperti” in quanto non è richiesta alcuna soglia o prerequisito per l’accesso. Ma è raro che la causa vada a buon fine, poiché tendenzialmente non ci sono abbastanza prove. Il soggetto offeso può ottenere la vittoria con una sentenza di condanna a risarcimento dei danni solo in casi estremi (ad esempio, nel caso in cui la persona offesa abbia avuto seri danni psicologici dopo aver assistito ad una rievocazione offensiva della schiavitù afroamericana).

L’italia non è estranea alla blackface. Dal piccolo al grande schermo, molti prodotti dell’intrattenimento presentano questa pratica. Basti pensare al programma “Tale e Quale Show”, in cui i concorrenti devono imitare famose personalità della scena musicale: alcuni tra i cantanti imitati sono afroamericani, mentre i concorrenti sono tutti caucasici, di conseguenza sono truccati con prodotti certamente più scuri della carnagione d’origine, simulando una razza non propria. Le polemiche non sono mancate, in quanto in un programma simile in USA, “Lip Sync”, si è dimostrato di poter evitare la blackface nell’imitazione di un cantante afroamericano. L’attore Channing Tatum, infatti, ha imitato Beyonce senza ricorrere al fondotinta scuro, ma riprendendo il suo “signature look”, che ha subito rimandato la mente dei telespettatori alla famosa cantante.

Un altro celebre esempio è contenuto nel film “Totòtruffa ‘62”, pellicola in cui Totò si traveste da “ambasciatore di Catonga”, un diplomatico africano. In questo caso però si può dire che la performance è nettamente più offensiva di un’imitazione canora: il diplomatico viene rappresentato con le movenze e i versi di una scimmia, dipingendo il popolo africano come poco civilizzato e rozzo. Certo è che bisogna contestualizzare: il film arrivò nelle sale di un’Italia che aveva poco a che fare con la cultura africana e che, in generale, era ancora nel mezzo del complesso processo di alfabetizzazione e di scolarizzazione. Lo spettatore medio, e forse anche coloro che sono dietro le quinte del film, non avrebbero colto il significato tragico di un mascherone nero. Ancora oggi purtroppo chi pratica la blackface lo fa ignorando la sofferenza che si nasconde dietro la maschera, pensando che sia un modo leggero di fare umorismo. Ed è proprio la leggerezza dietro questo gesto a dover far riflettere riguardo la poca informazione sul tema.

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