Ali di Icaro

di Annachiara Di Domenico

La mitologia classica ci insegna che la brama di conoscenza è un peccato. Agamennone, Aracne, Ulisse peccano inesorabilmente di “Hybris”: vogliono troppo, prevaricano la volontà degli dèi e ne pagano le conseguenze.

In mezzo a queste figure violente, orgogliose e irriverenti, il mito di Dedalo e Icaro è un’eccezione. Dalla storia trapela amore nei suoi significati più sfaccettati: l’affetto tenero di un padre, l’attaccamento alla libertà, la fiducia nella conoscenza, la voglia di saperne di più. Icaro è un’adolescente ingenuo e curioso, mentre suo padre, Dedalo, è un uomo pieno di vita e esperienza. Nonostante ciò, Dedalo pagherà per le sue competenze e sarà costretto a usarle per liberarsi dalla sua stessa creazione, in cui è imprigionato dal re Minosse, per evitare che se ne svelino i segreti. Come se il suo fato non fosse stato abbastanza tragico fino a quel momento, Dedalo verrà doppiamente punito: perderà suo figlio per la sua troppa voglia di conoscenza, che forse lui stesso gli ha infaustamente trasmesso.

Nel tempo, la figura di Icaro ha destato l’attenzione di artisti e letterati: non è più il simbolo dell’oltraggio, della disobbedienza nei confronti degli ordini dei genitori o della poca saggezza dei giovani. Non raffigura più colui che troppo vuole e che nulla stringe.

Icaro è la curiosità, la voglia di andare oltre ciò che ci viene imposto, è il libero pensiero, è la bellezza dell’irraggiungibile conoscenza omnicomprensiva.

Matisse, nei suoi papiers découpés, restituisce ad Icaro un lieto fine: il giovane danza tra le stelle che avrebbero dovuto far sciogliere le sue ali di cera. Il suo cuore rosso spicca sullo sfondo della sagoma nera, simbolo, forse, dell’eroe che trova la sua felicità, il suo cosmos.

Il mito non ci insegna che ci si autodetermina perseguendo gli ordini impartiti. Bensì la vera libertà consiste proprio nel rischiare tutto per andare oltre le proprie convinzioni e oltre i dettami prestabiliti dalla società, spesso tossici e radicati in noi sin dalla nascita. Nel romanzo Dedalus di James Joyce, ampiamente evocativo del mito, il protagonista Stephen afferma proprio questo: “Quando nasce l’anima di un uomo in questo paese, le vengono gettate reti per impedirle di fuggire. Mi parli di nazionalità, di lingua, di religione. Io cercherò di sfuggire a quelle reti”.

Talvolta siamo al tempo stesso i costruttori e gli inquilini dei nostri labirinti. Ci insegnano a nascondere così bene le insicurezze, che tra i meandri spigolosi del labirinto finiamo per non trovare più l’uscita, senza che vi sia un Re Minosse a costringerci. Iurisprudentes, nel mio caso, è stato l’escamotage. Imprigionata nel dedalo della mia mente, non c’era più spazio per la curiosità per il mondo esterno: quello che accadeva era troppo e io ero troppo poco per comprenderlo.

Iurisprudentes mi ha donato un paio di ali robuste, fatte di passione, conoscenza, idee, visioni. Mi ha dato fiducia e mi ha lasciato usare le ali a mio piacimento. E questo Icaro, incastrato nel suo stesso garbuglio di insicurezze, ha spiccato il volo, liberandosi. La storia non finisce male, non si pecca di Hybris, questo Icaro non cadrà in mare.

I miei Dedalo non sono adulti saccenti e pieni paternalismo. Al contrario, mi hanno preso per mano e mi hanno fatto riscoprire la curiosità, la voglia di fare e di conoscere.

Elena, Giulio, Clotilde, Leonardo, Pierpaolo, Alberto, Elisabetta, Irene, Francesco, Diuly: grazie per avermi condotto fin qui. Vi auguro di andare oltre le stelle che finora avete raggiunto.

E a voi, cari Lettori di oggi e di domani, auguro che Iuris sia per voi quello che è stato per me: una continua scoperta di voi stessi, della realtà che vi circonda e di tutto ciò che c’è nel mezzo. In questo difficile momento, in cui la pandemia costringe tutti nelle rispettive camere, spero che la scrivania non sia per voi un carceriere, ma che possa trasformarsi nello strumento con cui proiettare la vostra realtà oltre le mura che vi circondano, verso costellazioni che nemmeno immaginate.

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