Quando sono arrivata a Varsavia non avevo idea della sua incredibile storia.
Se oggi possiamo ammirare la capitale polacca, o meglio, se oggi c’è un posto chiamato “Varsavia” sul mappamondo, è solo grazie allo spirito combattivo dei suoi abitanti.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Varsavia è stata completamente rasa al suolo. Com’è noto, la città è stata sotto il controllo dei nazisti per anni, e, a differenza del resto della Polonia, i suoi cittadini non si sono mai davvero arresi.
Durante la battaglia di Varsavia nel 1939, il centro storico fu seriamente danneggiato dai bombardamenti. Successivamente, conclusasi la Rivolta di Varsavia del 1944, l’esercito tedesco decise di “vendicarsi” del movimento di resistenza “Esercito Nazionale” (“Armia Krajowa”) attraverso la detonazione dell’antico castello reale e di innumerevoli edifici storici. Il risultato fu drammatico: l’85% del centro storico della città fu raso al suolo. Lo scopo della distruzione era cancellare i varsaviani e la loro storia dalla faccia della terra.
Dopo la liberazione della Polonia, gli abitanti di Varsavia continuarono a vivere tra le macerie, nella città che avevano difeso con ogni mezzo (nelle rivolte vennero coinvolti addirittura minori armati). Lo scrittore polacco Leopold Tyrmand descrisse le condizioni dei varsaviani: “uno degli studiosi calcolò che in quel tempo i varsaviani inalavano l’equivalente di quattro mattoni ogni anno. Dovevano amare la loro città per volerla ricostruire anche a costo della loro respirazione. Fu forse per questo motivo che, dai campi di battaglia di macerie e detriti, Varsavia divenne ancora una volta la vecchia Varsavia, l’eterna Varsavia… i varsaviani la riportarono in vita, riempiendo i suoi mattoni del loro caldo respiro”.
Non è scontato che gli abitanti di una città martoriata dalla guerra decidano di ripristinare tutti gli edifici. Tutt’oggi in molte città europee si possono scorgere le viscere di palazzi e monumenti volutamente lasciati in rovina, per ricordare lo strazio del conflitto. Invece, la capitale polacca è rinata esattamente dai propri i detriti, che furono adoperati per la ricostruzione della città stessa. Architetti e professionisti locali hanno riprogettato il centro storico partendo dai paesaggi urbani del pittore italiano Bernardo Bellotto. Questo perché la maggior parte delle opere moderne riguardanti la storia e l’architettura della città furono inserite nella lista nera dei nazisti prima e distrutte dopo, in quanto si riteneva ostacolassero la “germanizzazione” della Polonia.
Oggi, il centro storico di Varsavia è Patrimonio dell’Umanità.
Oltre il centro storico, anche il ghetto di Varsavia è stato completamente distrutto. Il ghetto fu costruito nel 1939 e furono rinchiusi in tremila chilometri quadrati più di 450.000 Ebrei provenienti da Varsavia e località limitrofe. Data la scarsità di spazio, più famiglie erano stipate in piccoli appartamenti senza riscaldamento, in condizioni igieniche pessime e una razione giornaliera di circa cento calorie (molto al di sotto della media giornaliera necessaria per la sopravvivenza a lungo termine). Tra il tifo e le morti per disidratazione, malnutrizione e freddo, ben presto cominciarono le deportazioni. 300.000 Ebrei del ghetto di Varsavia furono deportati o uccisi tra Luglio e Settembre del 1942.
Le autorità tedesche diedero il permesso soltanto a 35.000 Ebrei di rimanere nel ghetto, ma in realtà la popolazione ammontava a più di 55.000: più di 20.000 Ebrei vissero clandestinamente nel ghetto, e alcuni di loro formarono un’altra resistenza, l’Organizzazione Combattente Ebraica (ZOB).
Per due anni la resistenza si procurò armi e costruì bunker. Quando i nazisti, per completare la deportazione, entrarono nel ghetto nel 1943 trovarono uno scenario inaspettato: le strade erano vuote e vennero sorpresi colpi di armi da fuoco e granate fabbricate in casa. Il fallimento della ZOB era inevitabile, ma quantomeno, a detta dei sopravvissuti, molti ebbero il potere di scegliere di morire combattendo per la loro libertà. E proprio in nome di quella libertà i pochi superstiti rimasti combatterono al fianco dell’Esercito Nazionale per la liberazione della loro città.
Anche il ghetto fu completamente raso al suolo. Oggi quel luogo di morte è ricolmo del caos cittadino della metropoli: lì sorge il centro finanziario della città e svettano i grattaceli delle più famose multinazionali. Tra i grattaceli sorge un non meno suggestivo palazzo moderno, in vetro e acciaio, il Museo Polin. Il museo per me è stato un faro inaspettato nel cielo buio della mia ignoranza in materia: è dedicato alla storia degli ebrei polacchi dal medioevo ad oggi. L’ho trovato un emozionante tributo alla storia di una cultura (che in Polonia non era poi così minoritaria) che è stata quasi cancellata dai libri di Storia. Alla fine della visita vi ritroverete certamente a pensare che la diversità è una mera costruzione della mente umana.
È stato commovente scoprire che la combattività è ereditaria. I varsaviani di ottanta anni fa, che si sono ritrovati a dormire tra le macerie delle proprie case, hanno certamente trasmesso i loro valori ai varsaviani del ventunesimo secolo, quasi come una tacita dote.
Se passeggerete tra le strade di Varsavia, in qualunque quartiere vi troviate, scoprirete piccole tracce di questa preziosa eredità: slogan, simboli, piccoli e grandi manifesti.
Nel ventunesimo secolo le ingiustizie continuano ad esistere ed i varsaviani si schierano sempre dalla parte giusta della Storia.
Nel 2020 oltre cento municipalità polacche si sono auto dichiarate “zone libere dall’ideologia LGBT”. Di tutta risposta, Varsavia si è colorata di tutti i colori dell’arcobaleno: bandiere e motti sono rinvenibili in ogni strada della capitale, ci sono continue manifestazioni, la maggior parte dei ragazzi indossa magliette e borse di stoffa arcobaleno, e tutti i locali si sono dichiarati “LGBTQ+ friendly”.
Dalle finestre dei palazzi si scorge un simbolo frequente: un profilo di donna nero con un fulmine rosso che sovrasta il viso. È il simbolo della protesta contro la legge che rende illegale l’aborto. A fine Gennaio 2021 la Corte Costituzionale polacca ha pubblicato una sentenza che vieta l’aborto in caso di malformazione del feto (il 98% degli aborti legali effettuati in Polonia era dovuto proprio a malformazioni fetali). Anche in questo caso, e ancor prima della sentenza, la risposta della città è stata prontissima: manifestazioni e proteste si sono susseguite per giorni.
Oggi profili scuri di donna guardano dall’alto dei balconi i passanti, a mo’ di monito per il governo conservatore e bigotto: sono pronte a difendere ancora i propri diritti.